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Il 24 marzo in America Latina. Nel nome di Romero e di tutte le vittime

Il 24 marzo in America Latina. Nel nome di Romero e di tutte le vittime

Tratto da: Adista Notizie n° 13 del 02/04/2016

38503 ROMA-ADISTA. Se c'è un tratto che ha contraddistinto in maniera più profonda la vita di “San Romero d’America”, di cui il 24 marzo si è celebrato il XXXVI anniversario del martirio, va cercato probabilmente nella forza con cui disse la verità, intendendo per tale, secondo le indimenticabili parole di Jon Sobrino, non «qualunque verità» ma «quella che onora poveri e vittime» (v. Adista Documenti n. 33/11). «Lì cammina la verità», disse non a caso un funzionario dell’aeroporto vedendo Monsignore passare di ritorno da Puebla. Cosicché non avrebbe potuto scegliere una data più giusta il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, quando, nel 2010, decise di proclamare proprio il 24 marzo, in omaggio all’arcivescovo assassinato sull’altare, “Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime”. Una questione, quella del diritto alla verità, che, se è attualissima ovunque – considerando, per usare ancora le parole di Sobrino, «il deplorevole stato in cui versa la verità nel nostro mondo» – assume però in America Latina un significato del tutto particolare. E proprio a partire dalla figura di mons. Oscar Romero – da sempre considerato il simbolo di tutto il martirologio latinoamericano dell’ultimo mezzo secolo – di cui, dopo la beatificazione proclamata il 23 maggio scorso, si attende ora la canonizzazione, che potrebbe essere accompagnata, è l'auspicio di molti, dalla beatificazione di p. Rutilio Grande (ucciso nel 1977), magari già nel 2017. Ma questo 24 marzo, in El Salvador, è stato vissuto anche nell'attesa di verità e giustizia in relazione a un altro caso, quello della strage dei gesuiti della Uca: dopo l'arresto, il 5 febbraio, di quattro dei 17 militari coinvolti nella strage, in risposta all'ordine di cattura internazionale emesso dal giudice dell'Audiencia Nacional di Madrid, Eloy Velasco, nell’ambito del processo avviato nel gennaio del 2009 in Spagna, tutta l'attenzione è concentrata sulla Corte Suprema di Giustizia, chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di estradizione dei militari accusati da parte della giustizia spagnola. 

Giustizia per Berta Cáceres

È con tutt'altro stato d'animo, invece, che la “Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime” si vive ai confini con El Salvador, nell'Honduras post-golpe (quello del 2009 contro il presidente Manuel Zelaya), in mezzo a un'escalation di terrore contro i movimenti indigeni e contadini in lotta contro l'agribusiness, l'estrattivismo e le grandi dighe. In un Paese ancora sotto shock per la morte di Berta Cáceres, la dirigente del popolo lenca e coordinatrice generale del Copinh (Consejo civico de organizaciones populares e indigenas de Honduras), uccisa il 3 marzo scorso per la sua lotta contro lo sfruttamento del territorio da parte di aziende minerarie e idroelettriche, è stato assassinato da due sicari, il 15 marzo, un altro esponente del Copinh, Nelson García, leader della comunità di Río Chiquito, il quale aveva appena prestato aiuto a 150 famiglie violentemente sgomberate – in uno dei tanti terreni su cui puntano a mettere le mani i latifondisti al servizio di imprese straniere – dalla polizia militare e dall'esercito, che hanno abbattuto le case di legno in cui vivevano le famiglie, ucciso le galline, distrutto l'orto e le coltivazioni e persino il forno artigianale della comunità. E si continua a temere anche per la vita del difensore dei diritti umani messicano Gustavo Castro Soto, testimone diretto dell'assassinio di Berta (durante il quale è stato anche ferito), a cui è stato impedito di tornare nel suo Paese. 

Intanto, a livello internazionale, non si spegne il clamore suscitato dalla morte della dirigente indigena. A chiedere giustizia, tra molti altri, è sceso in campo anche il Vaticano, con una lettera firmata dal card. Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che aveva avuto modo di conoscere la leader del popolo lenca in occasione del primo incontro dei movimenti popolari in Vaticano, nel 2014: «Voglio esprimere il mio auspicio – ha scritto ai familiari e agli amici di Berta, definendo «straordinario» il suo lavoro in difesa della Madre Terra – che venga realizzata un'indagine indipendente e imparziale su quanto accaduto affinché si chiarisca il più rapidamente possibile questo orrendo crimine» (un «attacco a tutti coloro che lottano per un mondo più giusto») e «venga garantita l'integrità fisica dei testimoni, dei compagni e dei familiari della vittima».   

Ma non c'è da farsi illusioni: come emerso dalla Missione Internazionale “Giustizia per Berta Cáceres”, che aveva lo scopo di contribuire a far luce sull'assassinio e premere per la liberazione immediata di Gustavo Castro Soto, l'Honduras si è trasformato in «uno dei Paesi più pericolosi al mondo per donne e uomini impegnati nella difesa dei diritti, in particolare quelli relativi all'ambiente, alla terra e al territorio». Così, il rapporto diffuso dalla Missione, costituita da parlamentari, giuristi e difensori dei diritti umani di nove Paesi latinoamericani ed europei, denuncia i forti vincoli del governo con imprese e organismi finanziari impegnati nella promozione di progetti idroelettrici, minerari, agroindustriali e forestali in territori indigeni, approvati senza alcuno studio di impatto ambientale e in violazione del diritto alla consultazione previa e informata delle comunità; sollecita la sospensione immediata del progetto di costruzione della centrale idroelettrica Agua Zarca (contro cui lottava Berta Cáceres), esortando i finanziatori a ritirare definitivamente i loro investimenti; denuncia l'assenza di volontà politica per superare l'impunità dominante nel Paese, come pure la crescente militarizzazione dei territori e la politica di criminalizzazione di militanti, giornalisti e dirigenti indigeni (a cominciare dal Copinh); auspica la sospensione da parte del Consiglio europeo dell'Accordo di Associazione con l'Honduras, fino a quando non venga assicurato il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

E tanto meno si fa illusioni il Copinh, che, in un comunicato dal titolo “Ora basta!”, si domanda: «Come è possibile confidare nel processo investigativo dello Stato se, anziché seguire le piste relative alle minacce ricevute dalla dirigente, si indaga sulla presunta partecipazione all'assassinio della dirigenza del Copinh?». E «come ci si può attendere giustizia nel caso della nostra leader se non si adottano neppure le misure necessarie a proteggere la sua famiglia e i suoi compagni?». 

A rischio verità, giustizia e memoria

Ma è soprattutto in Argentina che il 24 marzo assume un valore speciale, ricorrendo in questo giorno l'anniversario del colpo di Stato che, esattamente 40 anni fa, sprofondò il Paese nell'orrore. Un evento che si è celebrato in un contesto radicalmente mutato rispetto agli ultimi anni, segnato dagli attacchi sferrati dall'attuale presidente Mauricio Macri alle conquiste realizzate dal popolo argentino e al suo diritto “alla verità, alla giustizia e alla memoria”, come evidenzia in una lettera aperta un ampio cartello di movimenti popolari, denunciando l'involuzione in corso riguardo alla difesa dei diritti umani, alla libertà di espressione, alla tutela del lavoro, al rispetto delle istituzioni democratiche. Senza contare la «provocazione» che, per l'opposizione di sinistra e le associazioni dei familiari dei desaparecidos, ha rappresentato la visita del presidente degli Stati Uniti Barack Obama – espressione di un riallineamento a Washington che si annuncia devastante ai fini del processo di integrazione latinoamericana – proprio nel giorno dell'anniversario del golpe, considerando il sostegno a tutti i livelli garantito dagli Usa alla giunta militare (basti pensare all'incitamento di Henry Kissinger al ministro degli Esteri argentino César Guzzetti: «Se ci sono cose che vanno fatte, fatele rapidamente. Ma poi tornate ai procedimenti normali»). Tant'è che, se il Nobel per la Pace Pérez Esquivel ha tentato inutilmente di dissuadere Obama dal visitare il Paese proprio il 24 marzo, le organizzazioni di difesa dei diritti umani, a cominciare dalle Madri e dalle Nonne di Piazza di Maggio, si sono rifiutate di accompagnarlo durante la sua visita al Parco della Memoria, dove il presidente ha reso omaggio alle vittime della dittatura. 

Dal canto suo, Obama ha annunciato la decisione di desecretare documenti militari e di intelligence sui rapporti tra Stati Uniti e regime militare, ma si è ben guardato dall'esprimere qualsiasi seria autocritica rispetto al coinvolgimento statunitense con le dittature del Cono Sur, elogiando invece la rapidità con cui Macri sta realizzando riforme per ricongiungere il Paese alla comunità internazionale (laddove l'obiettivo di Washington è ottenere l'incorporazione dell'Argentina all'Alleanza del Pacifico, il cavallo di Troia degli Stati Uniti in America Latina) e promettendo milioni di dollari di investimenti da parte delle imprese statunitensi. 

Non è comunque solo Obama a promettere la declassificazione dei documenti sugli anni della dittatura: un impegno in tal senso è stato preso anche da papa Francesco, il quale già più di un anno fa, incontrando la presidente delle Nonne di Piazza di Maggio Estela Carlotto, aveva espresso l’intenzione di aprire alla consultazione gli archivi vaticani relativi al tempo della dittatura in Argentina. Il lavoro di catalogazione del materiale, ha spiegato il portavoce della Santa Sede p. Federico Lombardi, «procede regolarmente e si prevede che possa essere completato nel corso dei prossimi mesi, dopodiché si potranno studiare i tempi e le condizioni per la consultazione, d’intesa con la Conferenza episcopale argentina». Anche se, ha aggiunto, fin da ora si cerca «di rispondere a domande specifiche per questioni particolari di carattere giudiziario o umanitario». E intanto il 23 marzo, nell'udienza del mercoledì, il papa ha incontrato una delegazione dei familiari delle vittime della dittatura, invitandoli a portare il suo abbraccio a «tutte le madri che hanno sofferto per la scomparsa dei loro figli». 

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