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Presentazione. A scuola dagli indigeni

Presentazione. A scuola dagli indigeni

Tratto da: Adista Documenti n° 24 del 01/07/2017
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Se l’umanità intera andasse a lezione dai popoli indigeni, non ci sono dubbi che la sua salvezza sarebbe assicurata. Gli sconfitti della storia ufficiale – scritta a lettere di sangue dai fautori, bianchi, occidentali e cristiani, di un modello predatorio – hanno molto da dire, oggi più che mai, sulla strada da percorrere per strappare l’homo sapiens (o demens?) al destino dei dinosauri. Sono loro, indiscutibilmente, i veri custodi della natura che stiamo distruggendo (chiudendo ostinatamente gli occhi sulla verità elementare che per questa via distruggeremo anche noi stessi), e sono loro - in lotta da sempre per affermare il loro diritto all'esistenza e per difendere le loro culture, i loro valori, la loro spiritualità, cosmica, olistica, integrale - a offrire una speranza concreta di cambiamento, magari un’anticipazione del mondo che verrà (se l’umanità vorrà continuare a farne parte). Un mondo in cui l’essere umano possa vedere finalmente se stesso come parte della natura, anziché come qualcosa di separato e superiore, e la natura come soggetto di diritto, anziché come deposito di oggetti inanimati, stabilendo con essa un rapporto di armonia e contribuendo “dall’interno” al suo equilibrio. Una presenza, quella indigena, a cui si lega, attraverso i più diversi cammini di lotta, un ricco e diversificato filone di pensiero critico, caratterizzato da nuove proposte sull’esercizio del potere e sul rapporto con la natura - sotto forma di cosmovisioni contrapposte a quella occidentale e ai suoi tratti assolutisti, fondamentalisti e unilineari - e riconducibili in vario modo al concetto, decisamente plurale, di Buen vivir. Con tutto il potenziale rivoluzionario di tale visione, nel suo significato di opzione di vita per tutti, di vita in abbondanza - in un’armoniosa convivenza in cui tutti si preoccupino di tutti e in cui tutti si prendano cura della Pachamama, la Madre Terra -, in opposizione al modello capitalista, profondamente escludente, etnocida ed ecocida, del “vivere meglio”, meglio dell’altro o a spese dell’altro, che si traduce puntualmente nel dilagante “mal vivere” delle nostre città escludenti. Ma, proprio per questo, quella indigena è anche una presenza al centro di una triste catena di conflitti in tutto il pianeta, legati all'estrattivismo nelle sue varie forme (cfr. Adista n. 14/17, “Fratello suolo”, “Terra. Di ritorno dall'esilio /2”), cioè all'invasione, nei territori dei popoli originari, di miniere, industrie petrolifere, grandi dighe, gasdotti, aziende del legname, mega piantagioni di monocolture, parchi eolici, progetti immobiliari e, conseguentemente, alla contaminazione delle loro terre, dei loro fiumi, dei loro laghi, della loro aria. Un'invasione a cui i popoli indigeni resistono come hanno sempre resistito, vivendo e costruendo alternative, sotto il grido profetico di Túpac Katari, «Tornerò e sarò milioni»: saldi nella consapevolezza che, come recita un detto messicano, «Hanno provato a seppellirci, ma non sapevano che eravamo semi». E, a seppellirli, ci provano eccome, e sistematicamente: solo per ricordare alcuni dei casi più recenti in America Latina, il 19 aprile viene ucciso a Timbío, nello Stato colombiano del Cauca, il leader indigeno newexs Gerson Acosta Salazar, governatore del cabildo di Kite Kiwe, ultimo di una serie di 20 assassinii di dirigenti indigeni e contadini registrati dalla firma degli Accordi di Pace. Passa appena un mese e, il 20 maggio, Miguel e Agustín Vázquez, due dirigenti del popolo indigeno wixárrika, sono assassinati da uomini armati nello Stato messicano di Jalisco. Due giorni dopo, in Chiapas, viene ucciso il leader tzotzil Guadalupe Huet, consigliere dell'Organizzazione nazionale del Potere Popolare. Il 27 maggio è la volta dell'indigeno maya q’echí Carlos Maaz Coc, assassinato a El Estor, in Guatemala, durante lo sgombero violento, da parte della Polizia Nazionale Civile, di una protesta contro l'impresa mineraria CGN, responsabile della contaminazione del lago di Izabal, importante fonte di approvvigionamento ittico. E via di questo passo. Ma non c'è da sorprendersene, se è vero che, nell'aprile del 2016, a New York, riferendosi all'assassinio dell'indimenticata Berta Cáceres - la dirigente ecologista del popolo lenca (vincitrice del prestigioso Goldman Environmental Prize, una sorta di Nobel per l'Ambiente) uccisa il 3 marzo 2016 in Honduras per la sua lotta contro lo sfruttamento del territorio e dei beni comuni da parte di aziende minerarie e idroelettriche - il presidente della Banca Mondiale Jim Jong Kim spiegava come non fosse possibile «fare il tipo di lavoro che stiamo cercando di fare senza avere alcuni di questi incidenti» (Rebelión, 2/6). È per tutto questo che abbiamo scelto di dedicare ai popoli indigeni, alla lezione da essi donata al resto dell'umanità su un nuovo rapporto con la Terra – questione affrontata, nelle pagine che seguono, da Aldo Zanchetta, Eleazar López Hernández, Marcelo Barros, Silvia Zaccaria e Fiore Longo – il terzo numero della serie dal titolo “Terra. Di ritorno dall’esilio: la riscoperta della nostra Casa comune”, promossa dalla nostra associazione, Officina Adista, e finanziata con il contributo dell’8 per mille della Chiesa valdese. Buona lettura. 

* Immagine per gentile concessione dell'autore

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