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Questione palestinese, un mare di falsità

Questione palestinese, un mare di falsità

Tratto da: Adista Documenti n° 34 del 07/10/2017

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Il 2017 è un anno denso di anniversari legati al conflitto israelo-palestinese. Ne ricordiamo in particolare tre, che riguardano momenti decisivi della sua storia.

Un secolo fa, nel 1917, la Corona Britannica, attraverso una lettera del ministro degli Esteri Lord Bal-four al più illustre esponente inglese del sionismo, lord Rothshild, si premurò di far sapere che avrebbe visto di buon occhio la creazione di un “focolare ebraico” in terra palestinese. Il progetto di uno Stato per ebrei, fino ad allora orientato anche verso altri lidi, si volse decisamente verso la Palestina, diffondendo la prima grande menzogna legata alla nascita dello Stato israeliano: quella di una Palestina quale terra senza popolo, adatta per un Popolo (quello ebraico) senza terra. Ererz Israel, come la Palestina è chiamata nella religione ebraica, prima di allora era stata indicata soltanto quale meta di pellegrinaggi religiosi e la frase “l’anno prossimo a Gerusalemme”, scambiata dagli ebrei a Pasqua, aveva avuto solo il senso di una mera tensione spirituale: un legame con il passato, non una proiezione verso il futuro, come Moni Ovadia ha spiegato in una tavola rotonda su Antisemitismo/antisionismo (6/12/13, Università Roma Tre). Mai prima di allora, nota lo storico Ilan Pappe (La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, 2008, p. 22), la Palestina era stata indicata come territorio in cui insediare uno Stato. 

L’Imperialismo, tuttavia, è sempre stato aduso a spadroneggiare in ogni modo in casa altrui. All’epoca era preminente quello britannico e la Gran Bretagna era molto interessata al Medio Oriente. Come sostiene Miriam Marino (Con le unghie e con i denti, Redstarpress, 2017), è in questo senso che «vanno lette le promesse fatte ai sionisti con la dichiarazione Balfour». Non fu per caso, evidentemente, che, nella spartizione delle spoglie dell’Impero Ottomano tra Inghilterra e Francia, alla prima toccasse appunto la Palestina. La spartizione avvenne con il “sistema dei mandati” istituito dalla Società delle Nazioni, secondo il quale alle potenze occidentali  veniva affidato il controllo su popoli che «non avevano la necessaria maturità per diventare nazioni indipendenti», secondo una concezione che Marino giudica appropriatamente «razzista e coloniale».

Ecco dunque gli assi fondanti del clima culturale e politico in cui si formarono le radici di quel che sarebbe stato lo Stato di Israele: nazionalismo, imperialismo, colonialismo e razzismo. 

Con la Dichiarazione di Balfour, prese avvio la trasformazione del sionismo. Era nato con l’obiettivo di dare una terra agli ebrei – non esclusivamente in Palestina – per contrapporsi a una forsennata ondata di antisemitismo divampata in Europa, ma, secondo Moni Ovadia, cadde immediatamente nella trappola del nazionalismo, seguendo l’indirizzo dell’epoca. Fu tuttavia laico, tanto che il suo ideale era di una terra che potesse accogliere tutti e nella quale tutti potessero vivere con pari dignità e libertà. Un ideale  di cui c’è addirittura traccia nella stessa Dichiarazione fondativa dello Stato di Israele, lì dove afferma: «Lo Stato d'Israele… assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite». Affermazioni purtroppo ampiamente rinnegate nei fatti, avendo preso vita, per dirla con Ovadia, un ultranazionalismo furioso, con forti declinazioni di fanatismo religioso, che sfocia nel fascismo.

Anche l’immigrazione ebraica in Palestina mutò segno. Gli ebrei – che, nel corso dei secoli, avevano trovato scampo dalle persecuzioni dei Paesi cristiani rifugiandosi in quelli musulmani, Palestina compresa, ove avevano vissuto in pace e in armonia – con il diffondersi nel loro immaginario del mito della Terra Promessa arrivavano in Palestina con in mente l’idea di riappropriarsene. Si intensificarono gli acquisti di terreni, da parte dei nuovi arrivati, iniziati già anni prima con la costituzione nel 1901 di un apposito Fondo (www.jnf.org) deciso dalla Conferenza Mondiale del Movimento Sionista. Cominciarono così a sorgere tensioni tra le comunità palestinesi e quelle ebraiche, che si accrebbero dal 1924, quando giunse un’ondata di 67.000 sionisti. Con le tensioni crebbero la circolazione di armi e le organizzazioni di armati.

In un contesto ormai rovente, rispetto al quale le forze armate britanniche, presenti sul terreno in virtù del “mandato”, si erano andate sempre più defilando, settant’anni fa, il 29 novembre del 1947, giunse l’approvazione della Risoluzione n. 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU. 

Lo scenario internazionale era profondamente cambiato. L’ONU aveva sostituito la Società delle Nazioni; il colonialismo era in crisi e i grandi imperi andavano scomparendo; il mondo si stava riorganizzando in due blocchi, dominati uno dall’Unione Sovietica e l’altro dagli Stati Uniti; l’imperialismo assumeva forme nuove; andava costituendosi il terzo polo dei “Paesi non allineati”. L’Italia diventò Paese di frontiera e si accentuò l’importanza strategica del Mediterraneo e del Medio Oriente. Tutto dunque cambiava. Ma non la pretesa delle “grandi potenze” di disporre secondo i propri interessi del destino di altri popoli e Paesi. 

Va inquadrata così, a mio avviso, la Risoluzione 181, con la quale si stabilì la spartizione della Palestina tra due Stati non ancora esistenti ma da istituire. Stava per nascere lo Stato di Israele!

Esplose in quel momento una ridda di fandonie. In primo luogo, quella del rischio incombente sul nascituro Stato di Israele e sugli ebrei residenti in Palestina, presentati, sia l'uno che gli altri, deboli, isolati, minacciati dai milioni di musulmani e quindi esposti a rischio di distruzione. A questa menzogna si accompagnò quella della decisione degli Stati Arabi di intervenire a fianco del popolo palestinese e della loro volontà e capacità di ricacciare gli ebrei in mare. La realtà era un’altra: tra il dicembre 1947 e la fine del marzo 1948, nei territori palestinesi designati per appartenere al futuro Stato di Israele, milizie armate ebraiche compivano quella che si sarebbe rivelata come la prima fase di una vasta operazione di pulizia etnica; alla fine del 1947, in uno storico edificio dell’antica Tel Aviv, si insediava il quartier generale dell’Haganà, la maggiore, ma non unica, formazione armata clandestina sionista; il 10 marzo del 1948 veniva messo definitivamente a punto il Piano Dalet, che conteneva una «minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: (…) espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di farvi ritorno» (Ilan Pappe, op. cit, p. 45); la sera di quello stesso giorno venivano inviati dettagliati ordini alle unità sul campo per l'esecuzione del Piano, non appena fosse giunto il giorno.

Il giorno giunse il 14 maggio del 1948, che segnò la nascita dello Stato di Israele con l'emanazione della Dichiarazione Fondativa. In breve, il Piano Dalet venne eseguito:  furono distrutti 531 villaggi e 11 quartieri urbani e città con l’espulsione di quanti vi abitavano. 

Gli eserciti arabi entrarono in campo ma furono presto battuti, non solo per l'indiscutibile superiorità dell’esercito israeliano, ma anche per la scarsa convinzione con cui gli Stati arabi appoggiavano (e appoggiano) la causa palestinese, per una pluralità di motivi che schematicamente possono ridursi a tre: la nascita di uno Stato Palestinese – laico e democratico secondo  la dizione attuale – non è mai stata vista con favore dalle oligarchie che reggono gli Stati arabi; la Giordania aveva mire espansionistiche, non malviste dal movimento sionista, su parte della Cisgiordania; gli eserciti arabi si giovavano di consiglieri inglesi e avevano come capo supremo proprio re Abdullah di Giordania.

I risultati dunque avrebbero dovuto smentire le due fandonie. Ma non fu così: esse trovano gran credito ancora oggi. Se ne aggiunse una terza, secondo la quale gli 800.000 palestinesi espulsi per effetto del Piano Dalet sarebbero fuggiti solo per codardia abbandonando le loro case, le quali, divenute res nullius, sarebbero state assegnate dal governo israeliano alle famiglie ebraiche di nuova immigrazione. Tutti vi credettero e l’esercito israeliano in seguito poté menar vanto di  essere l’esercito più morale del mondo!

Il terzo anniversario è quello dei cinquant’anni dalla Guerra del 1967. Scrivono Chiara Cruciati e Michele Giorgio in Cinquant’anni dopo (Alegre, 2017, p. 24): «La guerra era nell’aria dopo anni di tensioni, scambi di accuse e avvertimenti, scontri occasionali e raid militari a ridosso della Linea Verde» (quella che segnò la demarcazione tra le due Palestine fissata a seguito dell’armistizio del 1949), da cui trasparivano le contese per le acque del Giordano e del Lago di Tiberiade e per le mire territoriali di Israele. Il tutto sapientemente nascosto dietro la facciata pacifista del Ministro degli Esteri Aba Eban in giro per il mondo. 

La narrazione di Israele in costante pericolo di fronte alla potenza del mondo arabo, utile anche per motivare l’approvvigionamento di cospicui armamenti, convinse l’opinione pubblica occidentale, quella  araba e persino quella israeliana. Molti palestinesi e gran parte della gioventù araba erano convinti che l’Egitto, guidato dal carismatico presidente Nasser, avrebbe inflitto una seria sconfitta a Israele e liberato la Palestina.

Il 5 giugno del 1967 emerse la verità: l’aviazione israeliana si levò in volo e distrusse a terra l’intera aviazione egiziana. A nulla valse l’intervento degli aerei siriani, giordani e iracheni: nel solo primo giorno di guerra furono eliminati complessivamente 400 aerei arabi (C. Cruciati – M. Giorgio, op. cit., p. 40). In sei giorni la sconfitta delle “potenze arabe” fu totale.   

A seguito di essa gli Stati arabi persero ogni credibilità, la Giordania abbandonò le sue mire sulla Cisgiordania e i palestinesi presero nelle proprie mani la responsabilità della loro lotta, sino ad allora rimasta sotto il controllo degli Stati vicini.

La fandonia però del piccolo David (Israele) contro Golia (il mondo arabo) non fu scalfita. Tutta capacità della propaganda e della diplomazia di Israele? Non credo. Israele è nato e si è sviluppato non  solo ad opera del movimento sionista. La sua costruzione è anche opera dell’imperialismo occidentale di marca britannica, prima, e statunitense, dopo. Israele posto nel cuore del Medio Oriente è un avamposto dell’Occidente a fronte del mondo arabo. Per questo il superamento del conflitto israelo-palestinese non si gioca tra le due parti in causa, ma altrove. Dove? Al momento, non è facile dirlo e neppure quando e come. Ma la Storia, si sa, non finisce. 

* Nino Lisi è esponente della Rete Romana di solidarietà con il Popolo Palestinese e membro della CdB di San Paolo.

 

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