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PRIMO PIANO. Tanto rumore per nulla… o quasi

PRIMO PIANO. Tanto rumore per nulla… o quasi

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 27 del 21/07/2018

Il cosiddetto decreto "dignità" non può essere giudicato prescindendo da due dati discriminanti, a mio avviso. Innanzitutto parliamo del decreto di un governo che ha il suo "padrone" in Salvini, che guida il passaggio del Paese dalla democrazia costituzionale al populismo autoritario, "dall'umano al disumano". In secondo luogo, quando si discute un atto del M5S, bisogna sempre tener conto dello stacco inverosimile tra propaganda e realtà. Questo scarto è evidentissimo (e preoccupante) per il cosiddetto "decreto dignità" (ma che significa dignità?). Siamo, infatti, lontanissimi, ovviamente, dal reddito di cittadinanza e dalla lotta complessiva alla precarietà, che erano stati assi caratterizzanti del programma elettorale. Siamo lontanissimi, peraltro, anche dallo sbandierato e presunto "superamento del jobs act". Di Maio rischia il grottesco quando si comporta come se il governo avesse varato un "nuovo statuto dei lavoratori", decretando l'abolizione del precariato, cambiando radicalmente verso alla politiche governative/confindustriali, recessive e predatorie dei diritti del lavoro.   

Anche per il contenuto modesto del decreto, la critica "da destra" del PD appare una mera coazione a ripetere degli errori dei governi Renzi e Gentiloni, che hanno generato disincanto e delusione (e, infine, grave sconfitta elettorale) nell'elettorato di sinistra. Il Pd rivendica, con pervicacia, punto per punto, le politiche sul mercato del lavoro. Di fronte ad un decreto Di Maio che non rielabora, non muta paradigma, si limita a piccoli aggiustamenti. Le principali criticità del Jobs act non vengono aggredite. Restano le "tutele crescenti", fino ai licenziamenti "senza giusta causa". Dove è finito lo sbandierato ripristino dell'art. 18 ? È un punto discriminante. Non vi è, quindi, il diritto per il lavoratore di ricorrere al giudice per la "reintegra" nel caso di licenziamento "senza giusta causa". Resta il regime dell'indennizzo per i licenziamenti arbitrari, anche se potenziato (si passa da 4 a 6 mensilità per l'indennità minima e da 24 a 36 per quella massima). Addirittura, nei casi "eccezionali", viene comunque prevista l'inversione dell'onere della prova a carico del lavoratore. Con il decreto, in definitiva, le imprese hanno la libertà di licenziare (perché uno straccio di presunta "motivazione economica" le imprese lo trovano sempre) pagando qualche mensilità a titolo di risarcimento. Anche la reintroduzione delle "causali" e la durata massima dei contratti a termine sono intenzioni positive ma molto, troppo modeste nell'attuazione. È importante, infatti, dopo anni di ossessione ultraliberista, discutere di contrasto alla precarietà; ma le imprese possono facilmente aggirare le norme del decreto non rinnovando lo stesso contratto, ma stipulandone un altro, con un altro lavoratore, aggirando sia l'obbligo della "causale" che il limite dei 24 mesi.

Non dimentichiamo, inoltre, che le associazioni padronali, appoggiate da Salvini, otterranno la reintroduzione massiccia dei voucher. Non si elimineranno, cioè, in Parlamento quelli reintrodotti da Gentiloni, ma si andrà verso un regime molto più permissivo. Altre contropartite molto gravi saranno costitute dalle risorse finanziarie e dallo smantellamento dei controlli fiscali, veri e propri regali ai processi di valorizzazione di un capitale spesso predatorio. Le associazioni datoriali urlano al disastro dell'economia. Ma stanno già trattando con il governo per un nuovo intervento per "ridurre il costo del lavoro". Anche gli evasori e gli elusori fiscali potranno festeggiare. Altro che reddito di cittadinanza... È triste, per la democrazia costituzionale, che l'arte, difficile, del governo sia, oggi, sostituita dalla demagogia propagandistica...        

* Giurista, Giovanni Russo Spena è stato segretario di Democrazia Proletaria, membro dei Cristiani per il Socialismo e senatore di Rifondazione Comunista   

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