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Il Padre Nostro, versetto per versetto

Il Padre Nostro, versetto per versetto

Tratto da: Adista Documenti n° 28 del 28/07/2018

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Il Padre Nostro è la preghiera più conosciuta e amata della tradizione cristiana. Fin dalle origini del movimento di Gesù, si presenta. Prima di esprimere qualunque commento, è necessario però ricordare come lo stesso Gesù di Nazaret, al momento di insegnare questa preghiera ai suoi discepoli, abbia lanciato loro un avvertimento, espresso dal Vangelo di Matteo con le seguenti parole: «Pregando, non sprecate parole», «perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt 6, 7-8). Con ciò, egli già aveva caratterizzato la preghiera del Padre Nostro, la quale non deve essere interpretata come una petizione, per quanto si presenti sotto forma di una serie di richieste: «Sia santificato il tuo nome»; «venga il tuo Regno »; «sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra »; «dacci oggi il nostro pane quotidiano»; «rimetti a noi i nostri debiti» e «non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male». Poiché il Padre sa di quali cose abbiamo bisogno ancor prima che gliele chiediamo. Come intendere, allora, la preghiera che Gesù insegnò ai suoi discepoli? Qual è il suo significato? È quello che mi propongo di esaminare qui.

1. Come intendere un testo scritto tanti secoli fa?

Esistono due versioni scritte del Padre Nostro, una nel Vangelo di Matteo (6, 9-13) e l’altra, più breve, nel Vangelo di Luca (11, 2-4). Entrambe redatte in greco, per quanto la maggioranza degli esegeti concordi oggi nel dire che deve essere circolata, nel nascente movimento di Gesù, anche prima della redazione dei vangeli (scritti tra il 70 e il 100 d.C.), una versione aramaica della preghiera. Gli esegeti affermano che tale preghiera originale conteneva le prime quattro frasi tra quelle appena citate (formulate come richieste), precedute da un’invocazione a Dio indicato con il termine aramaico “abba” (che significa “padre”). Si può ipotizzare, a ragion veduta, che i primi ascoltatori, di lingua aramaica, comprendessero senza problemi ciò che Gesù stava dicendo. Non è questo il nostro caso. Un’enorme distanza ci separa da Gesù, in termini tanto di tempo quanto di spazio e di cultura. Oltre a ciò, nel corso dei duemila anni successivi di storia cristiana, si sono accumulate le più diverse interpretazioni del testo, all’interno dei contesti più vari. Tutto ciò ostacola la nostra lettura del Padre Nostro. Sorge, poi, una questione prelimi nare: in che modo siamo in grado di cogliere, attraverso la lettura, il senso di queste parole pronunciate da Gesù di Nazaret?

2. Il principio del contesto

Disponiamo qui di uno strumento su cui hanno ultimamente insistito i filosofi del linguaggio, i quali non si stancano di ripetere che, senza contestualizzazione, non c’è possibilità di intendere un testo. Un orientamento che, a prima vista, può apparire semplice, ma che non è così facile come sembra. Siamo abituati a pensare al discorso come a una costruzione di parole, così come la casa è una costruzione di mattoni. Le parole sarebbero i mattoni di un discorso. Ma i linguisti insistono: la parola in sé, a rigore, non significa niente. Le parole, in realtà, funzionano come i pezzi degli scacchi. I quali, se posti accanto alla scacchiera, non significano nulla. Ma acquistano significato solo nel momento in cui occupano il loro posto strategico nella scacchiera. Ciò che dà senso alla parola è il suo funzionamento all’interno di un gioco di interazione, di (in)comunicazione. La parola funziona solo all’interno di una frase, che, a sua volta, ha senso solo quando è situata nel suo contesto più ampio. Pensare che la parola in sé sia capace di “cogliere” una determinata realtà, significa aprire la strada a possibili abusi. Quando chi enuncia una frase ha intenzione di confondere i suoi destinatari, egli rimescola le parole, emette mezze verità, genera equivoci che possono sedurre i suoi destinatari. È ciò che avviene con la televisione ai nostri giorni. Quanti sono abituati a seguire la tv non fanno altro che spostarsi, nell’universo dei significati della vita e della società, da una parte e dall’altra, come neppure scarafaggi in un labirinto impenetrabile!

Nel commentare il Padre Nostro, dobbiamo essere chiari su questo punto. Dobbiamo controllare attentamente e pazientemente come il testo trasmesso si inserisca nel suo contesto adeguato. Il contesto in cui il Padre Nostro è stato enunciato ci apre la strada alla comprensione di espressioni come “nome di Dio”, “regno di Dio”, “volontà di Dio”, “pane quotidiano”, “debiti”, “tentazione”, “liberazione (dal malvagio)”. Per questo, rivolgo un invito ad accompagnarmi nella lettura del Padre Nostro, versetto per versetto, facendo attenzione a collocare le parole nel loro contesto adeguato, nella misura del possibile. Seguiremo la versione del Vangelo di Matteo, capitolo 6, versetti 9-13, que cito qui per esteso.

v. 9. Padre nostro che sei nei cieli,

sia santificato il tuo nome,

v. 10. Venga il tuo Regno,

sia fatta la tua volontà,

come in cielo così in terra.

v. 11. Dacci oggi il nostro pane quotidiano.

v. 12. E rimetti a noi i nostri debiti,

come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

v. 13. E non abbandonarci alla tentazione,

ma liberaci dal malvagio.

Un primo dettaglio: si sarà notato che uso qui, traducendo il versetto finale, il termine “malvagio” e non la parola “male” (como avviene di solito). Ecco il tipo di traduzione di cui mi piacerebbe discutere nel commento che segue.

3. «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome»

L’espressione è unica, non risulta da nessun’altra parte nella Bibbia: Dio Padre (abba). Solo Gesù parla di un Dio che è Padre. La novità non consiste nell’espressione “abba”, che – a quanto pare – era piuttosto comune nel linguaggio popolare aramaico. Il biblista Joaquim Jeremias ha indicato come il termine fosse familiare nella cultura ebraica contadina ai tempi di Gesù. Un’espressione infantile. La novità consiste nel relazionarsi con Dio come un bambino si relaziona con suo padre. Ripercorriamo l’emozionante scena nel Getsemani: «Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14, 35-36). Qui Gesù si comporta come un bambino dinanzi al “padre del cielo”. Marco, che scrive in greco, traduce con “patèr” (“padre” in greco), termine che trova nelle Lettere di Paolo (Rm 8, 15; Gal 4, 6). E in questo modo è passato nella tradizione.

Dio Padre: è difficile immaginare un cambiamento di maggiore portata nell’immaginario religioso. Poiché, se Dio è padre, tutti e tutte noi siamo fratelli e sorelle. Poiché l’espressione “Dio Padre” non è innocua, ma rappresenta una sfida per chiunque si dica cristiano e cristiana. Siamo noi stessi a santificare il nome del Padre quando ci comportiamo da fratelli e sorelle, non solo quando pronunciamo parole pie. La frase «sia santificato il tuo nome » appare come una richiesta, ma è una sfida.

4. «Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra»

Ecco un’altra sfida presentata sotto forma di richiesta. La metafora “Regno di Dio” rappresenta un’ulteriore novità nel discorso di Gesù di Nazaret (accanto al “Dio Padre” e al condono dei debiti). Non molto comune nei testi biblici, la sua presenza nel vocabolario di Gesù produce enormi conseguenze. Nella mente di Gesù, il Regno di Dio si oppone al Regno del Diavolo. Nella sua visione, Dio regna nei cieli e il Diavolo regna sulla terra. Da qui la richiesta «venga il tuo Regno». Poiché il Regno di Dio, nei tempi in cui viviamo, non si trova sulla terra. La volontà di Dio non è qui che si realizza. Come appare sulla terra il Regno di Dio? La penitenza, la conversione, l’impegno sociale e la preghiera possono offrire un contributo, ma in ultima analisi il Regno deriva dal potere di Dio. Leggendo, in Matteo 11, 12, le parole di Gesù secondo cui solo i violenti conquistano il Regno di Dio, alcuni teologi hanno posto l’accento sugli sforzi umani, anche, eventualmente, in termini di rivoluzioni e movimenti politici e/o sociali. Ma i testi evangelici non confermano tale lettura. Ciò che appare chiaramente è l’insistenza di Gesù sul carattere etico della lotta per il Regno, benché non si possa scartare neppure la dimensione sociale e politica. In ultima istanza, qui come in altri testi evangelici, ciò che ci è stato trasmesso non consente affermazioni perentorie. Quando non esiste una certezza, bisogna accettare il dubbio e cercare di approfondire gli studi.

5. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»

Qui entriamo in un terreno più sicuro. Uno dei temi centrali del programma di Gesù, così come viene formulato in relazione alle popolazioni contadine della Galilea nel Vangelo di Marco, è quello del pane quotidiano. Orientato in direzione della vita quotidiana dei villaggi della Galilea (principalmente), tale programma tratta della “Legge dei Padri” (legge di Mosè) senza affrontare le questioni della purezza o dell’impurità o dell’obbligo di “salire” al Tempio per le feste e di pagare le imposte previste dalla legge, come facevano i sacerdoti. In questo consiste l’originalità del programma di Gesù: nel fatto che parla di pane, casa, figli, sostentamento della famiglia, anziani, produzione agricola, lavoro quotidiano.

Nel Vangelo di Marco, questo programma non ha l’incidenza che troviamo in brani del Vangelo di Matteo e di Luca derivanti dalla Fonte Q. Ciononostante, l’evangelista affronta temi come quelli della preoccupazione nei confronti della famiglia, dei bambini, dei vicini, del villaggio o della necessità di non aspirare al primo posto, di combattere il desiderio di arricchirsi o di essere sempre aperti al servizio. Radicato sul suolo della vita, il discorso di Gesù non può non toccare direttamente la maggiore preoccupazione del popolo: il pane quotidiano. Nel Vangelo di Marco, nientemeno che tre capitoli sono dedicati a questo tema (dal capitolo 6 al capitolo 8). In essi, la parola “pani” (sempre al plurale) compare 17 volte. Lo spettro della fame è tra le righe. Si parla continuamente di pani, di pani per tutti, di pane quotidiano. I pani conducono Gesù al di fuori delle frontiere di Israele e lo portano a trasgredire le norme tradizionali di separazione tra israeliti e persone impure. Gesù si preoccupa della mancanza di pane, non di questioni nazionaliste (separazione tra israeliti e non israeliti). È per questo che appaiono, nel Vangelo di Marco, due racconti di moltiplicazione dei pani. La ripetizione del miracolo esprime una lezione essenziale del programma di Gesù: perché non manchi il pane, c’è bisogno di solidarietà tra tutti, senza discriminazione. Qui non si parla di israeliti e non israeliti, ma di esseri umani. Il pane è “trasgressore”. Nel capitolo 6 del Vangelo di Marco, Gesù moltiplica i pani per gli ebrei e nel capitolo 8 per i non ebrei. I figli di Abramo devono cedere dinanzi all’urgenza del pane, poiché tutti hanno bisogno di cibo, israeliti e non israeliti. Il Regno di Dio è pane condiviso. Né la religione, né la cultura, né la razza o la nazionalità possono impedire il passaggio del pane. Quando, alla fine del racconto delle due successive moltiplicazioni dei pani, i discepoli si meravigliano del comportamento trasgressivo di Gesù, egli si innervosisce: «Non capite ancora?» (Mc, 8, 21)

6. E rimetti a noi i nostri debiti, così come li rimettiamo ai nostri debitori

C’è da dubitare sul fatto che questo versetto fosse presente nella versione aramaica originale del Padre Nostro. Sembra piuttosto una riflessione intorno a questioni concrete, suscitate dalle dirompenti enunciazioni del Padre Nostro; «sia santificato il tuo nome», «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà», «dacci oggi il nostro pane quotidiano». Può essere che tanto Gesù quanto i suoi discepoli fossero rimasti così impressionati dalla catastrofica situazione economica della Galilea da decidere di includere nella preghiera una richiesta perché cessasse lo sfruttamento del popolo attraverso le imposte. Si chiede a Dio di rimettere i nostri debiti. Se Dio lo facesse, come potrebbero le autorità ancora riscuoterli? Poiché è di questo che si tratta. Il testo greco utilizza qui il verbo “aphiemi”, che possiede un significato tecnico e vuol dire “cancellare un debito contratto”, “condonare un debito” o ancora “rinunciare a riscuotere il rimborso di un debito contratto”, come attestano diversi usi del termine in Matteo (Mt 4, 11 e 20; 6, 12; 8, 22; 9, 6; 18, 27). Si tratta, sì, di debiti pecuniari, si tratta di denaro.

Gesù è mosso da questioni concrete che affliggono il popolo della Galilea. Gli studi storici mostrano indizi di un crescente impoverimento delle popolazioni rurali della Galileia a partire dall’inizio del I secolo d.C., indicando come tale situazione si fosse aggravata negli anni successivi alla morte di Gesù. Un impoverimento in gran parte causato da un indebitamento sempre più oppressivo delle popolazioni contadine. Ogni volta che un contadino cercava di intraprendere un’attività, di prendere in affitto un terreno, di comprare una coppia di buoi, di chiedere un prestito per mantenere la propria famiglia, andava incontro a pesanti difficoltà. Questo contadino lavorava su terreni i cui proprietari non abitavano nelle vicinanze, ma nelle città ellenizzate (Sefori, Tiberiade, Magdala) o anche all’estero (come era il caso delle famiglie dei Sommi Sacerdoti, in maggioranza straniere, che possedevano le migliori terre della Palestina). Era il caso per esempio della famiglia di Erode Antipa, per non parlare della guarnigione romana stabilitasi a Gerusalemme, a lato del Tempio, che si sosteneva anch’esso con l’acquisto di terre. Questi proprietari possedevano un servizio collettivo di operatori (chiamati nei vangeli “pubblicani”), che si recavano nei villaggi a riscuotere le imposte (come emerge dal testo evangelico). Quando il contadino contraeva un debito, subito faceva la sua comparsa un riscossore ad esigere il rimborso del denaro prestato. In caso di rifiuto, il contadino poteva essere arrestato o anche venduto come schiavo (come Gesù ricorda in Mt 18, 23-35) Un clima di preoccupazione dominava il mondo contadino, fino alla disastrosa rivolta degli anni 66-70 d. C.

Oggi ci troviamo nelle condizioni di comprendere meglio le reali dimensioni dell’ingiustizia regnante nella Galilea di Gesù, poiché gli scavi archeologici nella regione hanno rivelato come, accanto all’opulenza delle residenze sacerdotali in città come Cafarnao, Tiberiade e altre, i villaggi rurali vivessero nell’abbandono. I sacerdoti predicavano la morale, parlavano delle imposte, dei diritti di Ihwh, esigevano il rispetto minuzioso dei 613 precetti della legge, principalmente quelli relativi all’obbligo di dare a Dio ciò che era di Dio attraverso il pagamento delle imposte al Tempio, senza apparentemente rendersi conto che stavano divorando i beni delle vedove.

Gesù sentiva il problema sulla sua pelle. Riteneva che soltanto una posizione radicalmente etica sarebbe stata in grado di rimediare a fondo ai problemi. È all’interno di questo clima che egli insegnava il Padre Nostro ai discepoli, ponendo la questione in questi termini: se Dio rimette i debiti, noi non dobbiamo fare lo stesso?

Nel Vangelo di Matteo (18, 23-35) c’è un testo che chiarisce bene questo pensiero. Cito integralmente: «Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti (l’evangelista pone molta enfasi nel racconto, considerando quanto questa somma sia esageratamente alta: un talento è la somma di 6.000 denari, l’equivalente di 6.000 paghe giornaliere. Moltiplicando 6.000 per 10.000 si arriva a 60 milioni di giornate pagate, un numero impossibile. Ma l’eccesso aumenta la drammaticità del racconto, nda). E poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che fosse venduto lui con la moglie e i figli e tutto quanto aveva, e che il debito fosse pagato. Perciò il servo, gettatosi a terra, gli si prostrò davanti, dicendo: “Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto”. Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ma quel servo, uscito, trovò uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari (il primo doveva 10mila talenti, il secondo un talento diviso per 60. Ma, di nuovo, l’esagerazione accresce la drammaticità, nda) e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: “Paga quello che devi!”. Perciò il conservo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me, e ti pagherò”. Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito. I suoi conservi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto. Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu me ne supplicasti; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?”. E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva. Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello».

7. E non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal malvagio

Non è chiaro se, qui, la traduzione corretta sia “malvagio” o “male”, perché la parola greca appare nel genitivo, consentendo entrambe le traduzioni. Ma, leggendo il versetto nel suo contesto, è evidente come la traduzione giusta sia “malvagio”, poiché Gesù, così come personalizza il principio del bene (Dio), fa la stessa cosa con il principio del male. Per lui, il male ha un volto e un nome: è Satana, Belzebu, il Diavolo, il Demonio. Gesù intende la propria missione nel quadro di un’opposizione cosmica tra Dio e Satana. La situazione del cosmo è la seguente: Dio detiene il potere nel cielo, Satana comanda sulla terra e nell’inferno. La principale opera di Gesù, secondo i racconti evangelici, consiste nel combattere instancabilmente il malvagio e gli effetti maligni che egli provoca nelle persone (principalmente attraverso le malattie). L’avvento del Regno di Dio esige l’espulsione del Diavolo, ossia la cura delle malattie. Poiché Dio ha preso la decisione di estendere il suo Regno sulla terra, Gesù pensa che la sua missione consista nel praticare miracoli, espellere demoni e curare infermi. Gesù crede che, quanto più si estenda il cerchio in cui si praticano cure ed esorcismi, ossia espulsioni di demoni, tanto più si diffonderà il Regno di Dio. I settanta discepoli sono inviati nei villaggi, curando ed espellendo demoni. La cura è sempre accompagnata dall’espulsione del demonio. E lo stesso vale per l’emarginazione sociale, lo sfruttamento, ecc. Se gli esorcismi, insieme alle cure, occupano il centro dei racconti sulle attività di Gesù nei Vangeli, è perché egli crede che Dio operi in essi e che attraverso di essi il regno si stabilisca sulla terra (Lc 11, 20). Da qui la preghiera: non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal malvagio.

8. Qual è l’idea predominante del Padre Nostro?

È possibile riassumere il Padre Nostro in un’idea che abbraccia tutto? Cos’è che alla fine si propone Gesù nell’insegnare questa preghiera ai suoi discepoli? Qual è l’idea predominante? Tenendo presente questa domanda, si può rileggere il testo di Matteo evidenziando alcune parole che sembrano indicare una risposta.

I termini che si riferiscono a Dio (“tuo”, “tua”) appaiono tre volte, mentre quelli che si riferiscono ai discepoli (“nostro”, “noi” “ci”) nove. Il discorso è orien tato verso la vita dei discepoli. In questo senso va messo l’accento sulla seconda parte del versetto 12: come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

La preghiera del Padre Nostro funziona solo quando è accompagnata da posizioni concrete. Da qui le frasi brevi, incisive, nervose, esclamative. I discepoli devono agire ora affinché venga il regno, sia fatta la volontà di Dio, non si cada in tentazione, Dio ci liberi dal malvagio, si rimettano i debiti dei nostri vicini, si ottenga il pane di cui abbiamo bisogno. «Se perdonerete gli errori dei vostri simili, il Padre vostro che è nei cieli farà lo stesso con voi», recita il testo di Matteo che viene subito dopo il Padre Nostro.

Invece di esprimere alte considerazioni su Dio, Gesù descrive situazioni concrete del suo tempo, del suo popolo. Non entra nel merito della tradizione religiosa ricevuta in eredità, non discute l’”essere” di Dio, non fa “teologia”, non partecipa delle discussioni dei sacerdoti e dei dottori del Tempio di Gerusalemme sull’alleanza nel Sinai, sull’esodo in Egitto, sull’ingresso nella terra promessa, non affronta il tema della creazione del mondo da parte di Dio, dell’adorazione e della messa in guardia dalla venerazione di altri dei, della devozione e del compimento degli obblighi religiosi. Tutto questo lo lascia da parte. Ciò che gli interessa è sapere quello che la fede ereditata può significare per la vita delle persone. La tradizione religiosa interessa Gesù nella misura in cui costituisce un racconto che spinga le persone a vivere in maniera evangelica.

Gesù non crea nuove metafore per parlare di Dio: lavora con le metafore che incontra nella cultura tradizionale. Non elabora una nuova teologia, non si comporta da riformatore religioso né pensa di creare una nuova religione, non intende cambiare la tradizione di Mosè. Il suo obiettivo è il comportamento fraterno tra i discepoli, perché perdonino non sette volte, ma settanta volte sette.  

Dio Padre, scultura di Arnold Quellin (1682) - cattedrale di San Salvatore (Bruges - Belgio), foto del 2017 di Pixel2013, tratta da Pixabay, immagine originale e licenza

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