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Se non resta altra via che disobbedire alle leggi

Se non resta altra via che disobbedire alle leggi

Tratto da: Adista Documenti n° 9 del 09/03/2019

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Credo che questa mia breve introduzione debba rispondere alla domanda che rappresenta il tema centrale della serata: se, cioè sia lecito disobbedire a una legge vigente e in che cosa precisamente consista la disobbedienza civile alle leggi.

Certo, è un po' insolito che un magistrato si metta a parlare in pubblico della disobbedienza alle leggi dello Stato. Per una ragione molto semplice: a differenza degli altri cittadini, i magistrati giurano sulla Costituzione di applicare tutte le leggi approvate legittimamente dal Parlamento. Ma anche ai magistrati capita di imbattersi in una legge che essi giudicano ingiusta. Intanto chiediamoci: quando si potrà dire che una legge è ingiusta? È chiaro che non possiamo trasformare questo nostro incontro in una discussione filosofica. Certo è che, sul piano filosofico, ciascuno di noi (anche il giudice) può ritenere ingiusta la legge che urti un principio morale che considera inderogabile. Ma noi stasera abbiamo bisogno di una definizione di legge ingiusta che ci veda possibilmente d’accordo su posizioni condivise. Qualcuno contesta anche che vi siano leggi ingiuste. Perché – si dice – se una legge è stata validamente approvata occorre osservarla. E non basta che uno o più cittadini non siano d’accordo con il loro contenuto. La legge esiste e tutti hanno il dovere di rispettarla, a prescindere dalle opinioni personali.

Io non sono d’accordo, perché credo che a ogni cittadino debba essere riconosciuto il diritto di dissentire e di far valere l’obiezione della sua coscienza. In uno stato democratico fondato sul primato della persona e della sua dignità, ogni cittadino deve godere della libertà di dissentire dalla volontà delle maggioranze e di criticare il contenuto degli atti che esse approvano. La critica e il dissenso, fino alle estreme conseguenze del rifiuto di obbedire alla legge, deve essere garantita a ciascuno. Solo gli Stati totalitari o i regimi polizieschi teorizzano l’obbedienza cieca e assoluta alla legge.

Ma una volta affermata questa libertà, resta pur sempre vero che la tenuta di una società ordinata si fonda sul consenso e sul rispetto che i cittadini generalmente devono alle leggi. Nessuna società democratica starebbe in piedi se ogni cittadino si riservasse l’iniziativa di trasgredire le leggi che non gli piacciono. Non possiamo dunque definire come ingiusta una legge solo perché non piace a questo o a quel cittadino, l’uno diverso dall’altro per formazione, cultura e opinioni. Ma tutti noi sentiamo più o meno chiaramente che talvolta ci troviamo dinanzi a una legge certamente ingiusta. E la legge sembra ingiusta alla maggior parte di noi quando contrasta con alcuni valori di fondo che guidano la generalità dei cittadini. Quando sentiamo, cioè, che si è operato uno strappo al tessuto sociale e civile che ci tiene insieme.

Attenzione: le leggi non destano questa reazione quando hanno un contenuto ideologico che non condividiamo. Ogni giorno vengono varate leggi che non vanno nella direzione che ci piacerebbe per la nostra società. Ma sappiamo che esistono molte posizioni ideologiche che giustificano la opposizione di ciascuno di noi a questa o quella legge. Tuttavia difficilmente ricorriamo in questi casi alla definizione di legge ingiusta solo perché non ne condividiamo il contenuto.

E invece abbiamo netta la sensazione che la legge sia ingiusta ogni volta che mette in discussione o in pericolo i valori fondamentali che regolano la nostra vita sociale. In questo caso noi sentiamo che non si tratta di una semplice questione ideologica. La ragione sta nel fatto che i valori fondamentali della nostra vita civile valgono per tutti: per quelli di destra, di centro o di sinistra. Quei valori sono sottratti al dominio delle maggioranze, anzi sono nati storicamente come garanzia delle minoranze. Quando una legge viola quei principi, o si allontana da quei valori, noi siamo sicuri che si tratta di una legge ingiusta.

Bene, noi sappiamo anche che questi valori che regolano la vita del nostro popolo sono affermati in una legge che è gerarchicamente sovraordinata alle altre: è la Costituzione italiana, i cui principi devono essere rispettati da tutte le altre leggi. Soprattutto quei principi che la stessa Costituzione definisce fondamentali e quei diritti che definisce inviolabili. E allora potremo forse essere tutti d’accordo su questo: chiameremo ingiuste quelle leggi che sono in netto contrasto con i principi e i diritti e i doveri fondamentali accolti nella nostra Costituzione.

La nostra mobilitazione, o meglio la nostra ribellione, nasce proprio da questa precisa sensazione: che alcune recenti leggi e i comportamenti delle maggiori istituzioni del nostro Paese abbiano violato diritti fondamentali e inviolabili della persona e siano contrari al senso di umanità. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata, come sappiamo, l’approvazione del decreto sicurezza. Perché questa legge ci è sembrata ingiusta fino a farci decidere di disobbedire? È veramente una legge ingiusta? Altri vi spiegheranno poi il contenuto della legge, io voglio solo accennare alle ragioni che la rendono ingiusta e giustificano la nostra decisione di disobbedire.

Il voto parlamentare sul decreto sicurezza è stato una violazione grave della Costituzione. Per la forma e per il merito. Il governo, scegliendo di porre la fiducia, ha impedito al Parlamento di discutere le chiare incostituzionalità delle norme, che si sono dovute obbligatoriamente votare nella versione imposta dal Consiglio dei ministri. La richiesta della fiducia è stata posta dal governo solo per impedire di discutere modifiche al testo predisposto. Dopo la conversione in legge spetterà ora alla Corte Costituzionale esprimersi sulla costituzionalità delle norme. Certo è che l’attuale maggioranza non si è preoccupata dei limiti che la Costituzione impone. In questa vicenda si è mostrata sorda anche ai richiami più autorevoli. Sono stati in molti, prima della conversione in legge, a dubitare della legittimità costituzionale. Il Consiglio superiore della magistratura ha elaborato uno specifico parere sul decreto legge originario, in cui si rileva esplicitamente come la normativa non sia rispettosa «degli obblighi costituzionali derivanti dagli articoli 10 e 117 della Costituzione».

Ancor più rilevante è stato l’altro monito formulato dal presidente della Repubblica. Infatti, l’emanazione del decreto “sicurezza”, il 4 ottobre del 2018, è stata accompagnata da una lettera rivolta al presidente del Consiglio nella quale Mattarella scriveva: «Avverto l’obbligo di sottolineare che, in materia, restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia». Ciononostante, il governo e la maggioranza parlamentare non hanno avuto ripensamenti e non hanno dato alcuna risposta ai rilievi espressi dal Capo dello Stato. Nel merito, poi, il decreto sicurezza è un esempio di ciò che non può essere fatto in materia di migrazioni. Anzitutto lo strumento prescelto del decreto legge viola la Costituzione. È infatti illegittimo l'uso del decreto legge per regolare fenomeni – quali le migrazioni – di natura strutturale che non rivestono nessun carattere di straordinarietà ed urgenza. Ma è nel merito del provvedimento che si riscontrano le più gravi incostituzionalità.

1° motivo di ingiustizia

In materia di migrazioni la nostra Costituzione pone un principio fondamentale che non può essere in nessun caso disconosciuto: l’articolo 10 assicura allo straniero il diritto di asilo. Secondo la giurisprudenza si tratta di un diritto soggettivo perfetto, attribuito direttamente dalla Costituzione. La Cassazione ha indicato nella misura del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie la "forma di attuazione" del principio costituzionale (recentemente sez. I, n. 4445/18). Il primo articolo del decreto sicurezza invece abroga la protezione umanitaria, sostituita da casi tassativi di permessi di protezione speciale. In questo modo si viola l'articolo 10.

2° motivo.

Ancora, c’è un principio di civiltà, di enorme valore, affermato nel testo della Costituzione all’articolo 27: la presunzione di non colpevolezza. E la nostra Costituzione non fa certo differenza tra cittadini e stranieri (si riferisce in generale all’«imputato»). Il decreto, invece, permette la lesione dei diritti degli stranieri relativi alla difesa e impone l’obbligo di lasciare il territorio nazionale qualora essi siano sottoposti a procedimento penale per una serie di reati. È come se si fossero riscritti in un colpo solo tre articoli della Costituzione (24, 27 e 113): tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, tutti hanno diritto di non essere considerati colpevoli prima della sentenza definitiva. Tutti, salvo gli stranieri.

3° motivo.

Questa discriminazione nei confronti degli stranieri nel decreto non viene meno neppure quando lo straniero diventa cittadino italiano. Anche quando sarà riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana, non sarà mai considerato alla pari degli altri, perché rischia di vedersela revocare nei casi di condanna definitiva per alcuni reati. Questa norma è in contrasto con due principi costituzionali. Quello d’eguaglianza, perché introduce nel nostro ordinamento una irragionevole discriminazione tra cittadini; e poi contravviene al divieto della perdita del la cittadinanza per motivi politici (articoli 3 e 22).

4° motivo.

È stato poi previsto il prolungamento della detenzione amministrativa nei centri di permanenza per il rimpatrio. Il raddoppio del periodo di detenzione viola l’articolo 13 della Costituzione, perché legittima una lunga restrizione della libertà personale senza l’ordine di un giudice. E inoltre viola l’articolo 5 della Carta europea dei diritti dell’uomo sul diritto di ciascuno alla libertà e sicurezza.

5° motivo.

Infine, molte disposizioni del decreto riducono le garanzie sino a ieri assicurate dai sistemi di accoglienza pubblica (Sprar), e contrastano con il principio di solidarietà sacrificando i diritti inviolabili dell’uomo previsti nell’articolo 2 della Costituzione. E sono da considerare non solo le lesioni di diritti costituzionalmente protetti, ma anche quelle che derivano dall’applicazione di certe misure di natura amministrativa. È il caso dell’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs n. 142 del 2015, che prevedeva le modalità d’iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo. Al di là della interpretazione degli obblighi che gravano sull’ufficiale d’anagrafe (a mio modo di vedere questi è tutt’ora tenuto a procedere all’iscrizione, anche d’ufficio, in forza dell’art. 4 della legge n. 1228 del 1954, che non è stata abrogata), ci sono i rischi conseguenti all’eventuale non iscrizione con le possibili limitazioni del godimento di diritti fondamentali, come quello alla salute e quello all’istruzione: articoli 32 e 33 della Costituzione.

Norme razziste

Tutte queste norme del decreto sicurezza ci appaiono non solo ingiuste, ma apertamente razziste, non appena ricostruiamo le motivazioni reali della legge. Se noi cioè mettiamo in evidenza tutte le alterazioni dei fatti che trasformano gli stranieri e i diversi in soggetti pericolosi e ostili, noi ritroviamo gli stessi meccanismi che hanno giustificato le leggi razziali del 1938 in Italia. Allora furono pochissimi quelli che disobbedirono, anche tra i giudici, per i quali era un preciso dovere non applicare leggi contrarie al senso di umanità, come sarebbe stato chiaro più tardi, dopo la fine della guerra.

Oggi è più facile per i giudici rifiutarsi di applicare le leggi ingiuste, perché la stessa Costituzione prevede che l’ingiustizia possa essere segnalata alla Corte Costituzionale che poi dovrà decidere se la legge è contraria o non ai principi della Costituzione.

Per i cittadini, invece, il rifiuto di obbedire alla legge ingiusta è più difficile: da un lato c’è infatti la tentazione di conformarsi alla legge ingiusta, come succede ai tantissimi che plaudono alle iniziative e alla politica del governo, anche perché il conformismo favorisce la quiete sociale, mentre la contestazione provoca tensioni e divisioni. Dall’altro lato, poi, ci sono le conseguenze che l’ordinamento giuridico prevede per coloro che non rispettano le leggi vigenti, cioè le sanzioni previste per coloro che non obbediscono alla legge.

Questo aspetto, che qualche volta può avere conseguenze anche drammatiche, scoraggia molti cittadini educati a pensare che le leggi vadano comunque rispettate, almeno fino a che non siano abrogate.

Questo senso della legalità è prezioso, perché tutti noi vorremmo sempre rispettare le leggi. Ma nelle democrazie consapevoli questo senso della legalità non può rappresentare un valore assoluto. Vi sono casi in cui l’illegalità non può essere confusa con la disobbedienza civile. Perché l’illegalità è un concetto diverso dalla disobbedienza civile. Chi commette un’azione illegale lo fa in vista di un tornaconto e nella convinzione di ricavare un vantaggio personale dalla violazione della legge; chi disobbedisce, al contrario, non è mosso dall’idea di ricavare vantaggi personali; viola consapevolmente la legge per affermare un principio superiore e si dispone a pagare il prezzo che l’ordinamento prevede nei casi in cui non si obbedisca alla legge. Come diceva Lorenzo Milani, «chi disobbedisce ama di più la legge, perché vuole una legge migliore».

Ci sono momenti in una democrazia nei quali, se i cittadini vogliono esercitare quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione gli assicura, devono sapersi opporre alle leggi ingiuste, quelle che annullano o indeboliscono i diritti e le garanzie previste dalla nostra Costituzione. La Costituzione all’apparenza è una fragile cosa perché è fatta di parole. Vedete con quale facilità i nostri governanti (non solo quelli attuali, ci sarebbe un lungo elenco di governi di destra e sinistra) credono di poter violare la Costituzione. Sanno benissimo cosa stanno facendo: e non ci sono costituzionalisti che tengano, presidenti della Repubblica o giudici costituzionali che segnalino le incostituzionalità delle leggi che stanno per essere approvate! Quando l’interesse di parte lo impone, essi di proposito violano la Costituzione.

È il tentativo, oggettivamente grave, con il quale la legislazione ingiusta cerca di costruire nuovi principi di convivenza della nostra comunità e lo fa svuotando le norme costituzionali del loro contenuto e dei loro principi. E mi sembra anche di capire che questo nuovo razzismo istituzionale conquisti le simpatie e l’approvazione di molti. A questa legalità ingiusta, noi contrapponiamo una disobbedienza giusta e siamo disposti a pagare il prezzo necessario. Senza retorica, ma consapevoli di battersi per una causa giusta e sapendo che di impegno civile e di convinzioni profonde vivono le democrazie più solide. Quella cosa fragile che è la Costituzione fatta di parole acquista una forza enorme quando un popolo la considera l’orizzonte necessario della propria vita sociale e civile. A volte è necessario disobbedire alla legge se si vuol salvare la Costituzione, se si vuole cioè riaffermare quel patrimonio di valori, di sangue, di resistenza e di idee che rende civile la nostra vita  

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