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Il cattolicesimo democratico e il referendum: intervista a Guido Formigoni e a Vittorio Sammarco

Il cattolicesimo democratico e il referendum: intervista a Guido Formigoni e a Vittorio Sammarco

Tratto da: Adista Notizie n° 32 del 19/09/2020

40375 ROMA-ADISTA. Il referendum costituzionale del 20-21 settembre ha diviso la politica italiana, ma il dibattito sorto intorno al tema ha visto piuttosto defilato il mondo cattolico. Non si può certo parlare di una discussione infuocata. Al contrario, l’atteggiamento prevalente nell’associazionismo e nell’ambito del cattolicesimo democratico sembra segnato da un certo riserbo. Le posizioni assunte da singoli giuristi, gruppi e organizzazioni (v. Adista Notizie n. 31/20) riflettono un certo pluralismo delle opinioni in campo. Ne rendono ampiamente conto le due interviste che hanno rilasciato ad Adista Guido Formigoni, docente di storia contemporanea presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, e Vittorio Sammarco, anche lui docente di Giornalismo e Comunicazione politica presso la Pontificia Università Salesiana e esponente dell’associazione C3dem. Abbiamo posto a entrambi le medesime domande. Ne esce fuori un quadro articolato, con posizionamenti diversi, ma anche elementi di convergenza nell’analisi del voto e dei suoi effetti.

Qual e la sua valutazione sugli effetti della riduzione del numero dei parlamentari? Cosa funziona e cosa non va nella riforma?

Formigoni: Innanzitutto, a mio parere è del tutto positivo in termini di metodo che si tratti di una modificazione specifica e non suscettibile di tante interpretazioni (alla riduzione del numero dei parlamentari elettivi si aggiunge solo lo scioglimento dell’incertezza sul numero dei senatori a vita). Era emerso con chiarezza nel dibattito pubblico proprio nell’ultima occasione del 2016 che ogni riforma costituzionale complessa con ambizioni sistemiche è anche in realtà ambigua, perché porta l’elettore a dover approvare l’insieme, facendo inevitabilmente perno su qualche misura più attrattiva di altre e trasformando di fatto il voto sul merito dei cambiamenti in un plebiscito pro o contro i promotori (con tutto il rischio del caso, amplificato quando questi coincidono con il governo).

La seconda valutazione è che il merito della questione non è così drammatico. Non è una riforma pericolosa, ma non è nemmeno una riforma inutile, come qualcuno tende a farla passare. Però una considerazione laica e disincantata sarebbe meglio che non alzare grida di gioia per la vittoria del popolo sulla casta o, all’opposto, rubricare la modificazione come la tomba della democrazia…

In terzo luogo, si può discutere degli effetti specifici sul ruolo del Parlamento. Una riduzione della relativa pletoricità (che era stata segnalata da diverse parti e in diverse occasioni) riduce il rapporto di rappresentatività del singolo deputato o senatore in termini di popolazione, ma questo può non essere un problema dato che i termini delle comunicazioni, degli spostamenti, della circolazione delle notizie non sono più quelli del 1948 (o del 1963 in cui il rapporto fu codificato). Invece, in termini di rappresentatività delle forze politiche, non nascondiamoci che la riduzione dell’ipotetica presenza delle minoranze è relativa e dipende nei fatti molto più dalla legge elettorale che non dal numero dei parlamentari. Quindi una riduzione può anche dare maggior valore, evidenza e riconoscibilità a una serie di rappresentanti del popolo che ultimamente erano stati spesso ridotti a un’oscura massa di manovra di ristretti vertici politici. Naturalmente a questo proposito non basta la riforma in sé: dovrebbe essere accompagnata da una riforma dei comportamenti e di altre norme (ad es. candidature bloccate, discussione nei partiti ecc. ecc.).

Sammarco: Decisamente negativa. Mettiamola così: il taglio non ha senso fuori da un contesto di riforme (nuova legge elettorale, differenziazione delle funzioni di Camera e Senato, modifica dei Regolamenti parlamentari, Riforma dell’assetto regionale, disegno dei collegi elettorali, ecc) che lo renda funzionale sia in termini di efficienza che di rappresentanza. Ma dire, come fanno i sostenitori del “sì”, “intanto facciamo questa, poi piano piano si vedrà per il futuro”, non solo non ha un senso logico, a mio avviso, ma credo neppure politico. Perché come si fa a stabilire con certezza che le cose avverranno in modo coerente e consequenziale, chi lo garantisce? D’accordo, la politica si fa anche a piccoli passi, con un riformismo alto ma ponderato. Ma se non ci si siede a tavolino con pacatezza e reciproca fiducia i risultati sono pastrocchi, di cui è piena la nostra strada di riforme. Al momento la rabbia e la disillusione nei confronti delle istituzioni politiche (che poi sfocia anche nella vera e propria avversione ribellistica) credo che vadano raffreddate, moderate, guidate, piuttosto che cavalcate e fomentate. Il vero sicuro risultato di questo taglio “rabbioso” sarà, credo, “ecco, gli abbiamo dato una botta a questi qua”. E dopo? Che concetto avremmo nel popolo del Parlamento e delle istituzioni in generale? Un risultato davvero negativo rispetto ad un presunto beneficio.

Al di là degli aspetti economici di risparmio (57 milioni l’anno mi sembra davvero poco a fronte di un ipotetico miglior funzionamento), il punto è la qualità del contenuto di molte normative prodotte dal Parlamento. Negli ultimi anni le cronache della politica segnalano che i problemi che si pensa di risolvere con il taglio sono più da ascrivere alla bassa qualità piuttosto che all’eccessivo numero degli eletti. Come abbiamo scritto con un gruppo di amici cattolico democratici e cristiano sociali nel documento pubblicato da C3dem.it «diventa più urgente una legge sui partiti per assicurare una migliore selezione dei candidati da mettere in lista secondo regole che ne garantiscano, rappresentatività, rettitudine, competenza, orientamento al bene comune, autorevolezza, responsabilità istituzionale».

E invece il taglio riduce la rappresentanza nel senso che si allargheranno a dismisura i collegi elettorali e, di conseguenza, ci saranno piccole regioni in cui molti partiti non saranno rappresentati, si ridurrà il pluralismo e, a causa dei territori più vasti, aumenteranno i costi delle campagne elettorali e soltanto chi potrà sostenerli sarà più facilmente eletto. Detto ciò, penso anche che le istituzioni rappresentative debbano sempre più aprirsi, in modo integrato e intelligente, a forme di ascolto e di coinvolgimento dei cittadini alla elaborazione di proposte e di norme. In sostanza dobbiamo considerare che le forme di partecipazione si allargano e si potenziano con nuovi sistemi da non trascurare, e rappresentanti e rappresentati non possono lavorare su due campi diversi, come se fossero alternativi e contrapposti. Questo fa il male della democrazia. È da un ponderato mix (difficile da elaborare una volta per tutte e sempre in continuo necessario aggiornamento) che nasce una buona democrazia. Ma squalificando l’uno o deprimendo l’altro soggetto (parlamento, cittadinanza elettorale e partecipante) non si va da nessuna parte.

In che modo la riforma si lega alle iniziative dei governi precedenti? Cosa pensa del dibattito che l’ha preceduta e accompagnata?

Formigoni: Certo, questa riforma ha un imprinting specifico, che è la protesta pentastellata anti-casta. Può piacere o meno. A me la forma di questa protesta piace molto poco: non credo affatto alle loro assurde forzature sull’“uno vale uno” o sul fantasma di democrazia diretta da sostituire alla rappresentanza. Ma penso che le origini e il contesto possano essere separate dal merito delle cose. Può anche essere segnalato l’opportunismo del passaggio del Pd in Parlamento dall’opposizione all’approvazione, quando è cambiato il quadro politico. Ma anche in questo caso, è comprensibile che le ragioni del nuovo accordo di governo del 2019 fossero sostanziali.

Dall’altra parte, segnalo che non mi convince una risposta critica e una propaganda dei sostenitori del “no”, con una difesa del ruolo del Parlamento che mi pare assuma oggi un significato apparentemente nostalgico dei bei tempi andati in cui la democrazia funzionava. Sottovalutando quello che è invece stato il punto nodale dell’attacco populista alla politica: la crisi del modello tradizionale e la diffusione di modalità di azione e di comportamenti tutt’altro che consoni a una esperienza di democrazia rappresentativa solida e ricca. Devo dire che questa mi pare una componente non secondaria del successo (imprevisto nelle sue proporzioni, quanto magari anche un poco effimero…) della protesta pentastellata. E parallelamente lo stesso atteggiamento ha portato alla debolezza intrinseca della reazione all’antipolitica: anche lo spezzone migliore della classe dirigente politica degli ultimi decenni ha largamente mancato al proprio ruolo – che doveva essere assieme di difesa dei valori e di cambiamento dei mezzi – riducendosi alla fine alla difesa di un’esperienza nel suo complesso piuttosto indifendibile.

Sammarco: La legge sul taglio nasce dall’esigenza del Movimento 5 stelle di dare seguito ad uno degli assi della sua campagna elettorale: la rivolta antipolitica contro “la casta”, accreditata come fonte di ogni male italiano. E già questo pare a me – e a molti – non solo non condivisibile ma da contestare in nuce perché foriero, a cascata, di tanti altri errori (la delegittimazione delle istituzioni, il mancato riconoscimento delle responsabilità proprie, la crescita di leader populisti, e così via). Poi con il cambio della maggioranza di governo, ancora però segnata dalla prevalenza del partito di maggioranza in Parlamento, è stato difficile rivedere quel percorso già approvato dalla precedente alleanza. E qui nasce la trappola in cui si è trovato il Pd, che ora sembra crederci e caldeggiare l’idea: questo è un primo passo verso una riforma più completa, si dice. Ebbene proprio dal dibattito che l’ha accompagnata mi sembra che i segnali per il dopo siano invece negativi. Riforma della legge elettorale? Vedremo… Riforma dei collegi? Se ne può parlare… E quella sui partiti? Ah no, sarebbe un’invadenza dello Stato… Insomma, per farla breve: le riforme costituzionali condivise si fanno in un contesto positivo e largo. È chiaro che il clima generale tutto porta a credere meno che a una sorta di assemblea costituente che renda la nostra democrazia più efficace ed efficiente. Ma ci si deve provare anche a costo di rallentare i tempi delle riforme. Quando Giorgia Meloni dice con sarcasmo che, in questo periodo drammatico in cui gli italiani hanno problemi economici, “questi” stanno pensando alla legge elettorale, fa presa presso l’opinione pubblica, perché per molti si traduce in “voglio soldi, benessere, altro che democrazia”. Si riesce a fare capire che in un sistema democratico le due cose sono strettamente legate e l’uno dipende in molto, se non in tutto, dalla seconda? Questo è il nostro modo di vedere la politica, altrimenti è una serie – incoerente – di misure senza visione complessiva.

Come si e posizionato il “mondo cattolico”?

Formigoni: Registro, come del resto ovvio, una situazione piuttosto differenziata e pluralistica, ma questa volta con eccezioni rispetto alle tendenziali collocazioni sullo scenario politico delle simpatie e delle preferenze (che sappiamo essere piuttosto divaricate). Anche tra i giuristi e costituzionalisti che stanno in questo mondo, al contrario di altri casi precedenti, c’è divaricazione. Per quanto capisco, le origini pentastellate della proposta hanno relativamente poche simpatie nel mondo cattolico. C’è la diffusione – esplicita o meno – di molti mal di pancia e tendenze per il “no”. Forse anche una parte dei cattolici che sostengono il centro-destra potrebbe risentire del “tradimento” dell’estate scorsa del movimento grillino, anche se mi paiono pochi i protagonisti della destra (anche cattolica) che si siano rimangiate esplicitamente le precedenti approvazioni. È comprensibile invece una tendenza per il “no” in quei ristretti mondi che si sentono orfani di una rappresentanza partitica identitaria di ispirazione cristiana, che oggi temono una spinta ulteriore all’innalzamento delle soglie per nuove sperimentazioni di questo tipo. Si sono espressi per il “no” gruppi legati alla tradizione cristiano-sociale e all’impegno nella sinistra che difende classicamente il Parlamento. Vedo che tendono a essere per il “sì” i sostenitori, non da oggi, delle posizioni di “democrazia governante” di segno maggioritario, che avevano invece scontato da tempo una riduzione del peso del Parlamento.

Sammarco: In maniera pluralista, come è giusto e normale che sia. Ma in modo prevalente, mi pare, da quello che leggo, a sostegno del “no”. Gioca molto la grande considerazione che ha nella storica tradizione cattolico democratica l’istituzione del Parlamento. E poi c’è una recente diffidenza – anzi direi proprio ostilità – per le formule considerate populiste che fanno di tutta l’erba un fascio (diciamo…), os sia “contro la casta”, “tagliamo le poltrone”, “a casa, chi è responsabile dello sfascio”, e via gridando e che si sentono di frequente in tutte le piazze e i bar di Italia. Ecco: chi ama la politica come “tra le più alte forme di carità”, non può accettare, a pelle direi, discorsi simili. E se questo referendum nasce in questo terreno di cultura è più che naturale prenderne le distanze. Però, non sono pochi coloro che sostengono il “sì”, fra i quali alcuni amici e persone rispettabili e ragionevoli, con le quali, credo proprio, che l’amicizia e il dialogo politico non verrà meno neppure dopo. Poi c’è sempre quella domanda di base da porsi: ma poi, in fondo, cosa è il “mondo cattolico”?

Quale esito ti aspetti dal voto? Quali le possibili conseguenze?

Formigoni: Tutti si aspettano la vittoria facile del “si” sull’onda del successo popolare prevedibile della campagna per i risparmi, ai danni della “casta”. Ma per valutare bene gli effetti molto dipenderà anche dal tasso di partecipazione e dal distacco tra i due fronti. Il “sì” dovrebbe rafforzare il governo, con il Pd peraltro palesemente un poco in imbarazzo: del resto la trasformazione dell’accordo dell’estate scorsa in qualcosa di più strategico avrebbe bisogno ancora di molto lavoro politico. E il Pd sembra invece aver bloccato l’ipotesi lanciata da Zingaretti di un rilancio allargato.

Proprio l’approvazione della riforma, poi, potrebbe stimolare altri e conseguenti passaggi istituzionali e politici. Una riforma dei regolamenti parlamentari, una nuova riflessione sulle modalità sensate per superare il bicameralismo perfetto (del tutto diversa dalla soluzione pasticciata e impraticabile dell’ultima riforma proposta e bocciata nel 2016). E soprattutto una nuova ponderata legge elettorale che – rifuggendo anche in questo caso da ogni approccio taumaturgico che in passato è stato volta a volta applicato ai modelli maggioritari o proporzionali – provi a tenere decentemente assieme le ragioni della rappresentanza e quelle della governabilità.

Sammarco: Temo che vincerà il “sì”, ma non temo conseguenze di particolare rilievo, né per il governo, né per il sistema complessivo. Reggerà come ha sempre retto anche dopo referendum più impegnativi di questo. Un segnale politico dipenderà sicuramente dalla partecipazione complessiva al voto (che dipende anche dalle misure di distanziamento, che disincentivano) e, all’interno di essa, dai numeri che otterranno i due fronti. Se profondamente squilibrato (verso il “sì”, suppongo) tale da poterlo rimarcare con forza nelle future campagne elettorali, assumerà quel significato iconico che le forze che lo hanno promosso proveranno a spendere a proprio favore. Altrimenti, con un maggior equilibrio, o addirittura con la vittoria per il “no” (ma ho dubbi…), si dovrà tornare a parlare di riforme e magari, con maggior pacatezza. Non vedo come si possa eventualmente attribuire all’una o all’altra risposta il significato di un messaggio pro o contro il governo. Che ha dei limiti e delle difficoltà evidenti, ma, in tutta onestà, per nulla da legare a questa proposta di modifica del numero dei parlamentari… 

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