
La giustizia di Nordio sulle orme di Berlusconi
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 24 del 08/07/2023
Si erano appena conclusi i solenni funerali di Stato di Berlusconi, quando, il 15 giugno, il Consiglio dei Ministri ha varato il disegno di legge Nordio, che il Ministro della giustizia del governo Meloni ha qualificato come un atto di omaggio al defunto. Infatti la riforma Nordio riprende il percorso di manipolazione del giudiziario che Berlusconi aveva perseguito, con alterne vicende, in tutta la sua carriera politica. L’asse portante di questo percorso è quello di neutralizzare il controllo giudiziario rispetto agli abusi dei ceti dirigenti, politici, affaristici o imprenditoriali. In altre parole depotenziare l’incisività dello strumento penale nei confronti dei reati dei c.d. “colletti bianchi” e allargare l’area dell’impunità di fatto per le “persone perbene”. A questo atteggiamento “garantista” nei confronti di alcuni ceti sociali, fa da pendant una politica di criminalizzazione della marginalità sociale. Questa double face della politica criminale è un fenomeno che viene da lontano e ha attraversato diverse stagioni politiche (che hanno visto per i reati di strada aumenti di pene inusitati rispetto al Codice Rocco), ma adesso con Nordio ha raggiunto livelli mai visti. Basti pensare al decreto “Rave”, con il quale è stato inventato un assurdo reato di “raduno musicale”, punito con una pena abnorme (da tre a sei anni di reclusione). Con questa riforma Nordio, per venire incontro alle richieste di “protezione” del ceto politico-amministrativo, taglia la testa al toro e addirittura cancella il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), restringe il reato di traffico d’influenze (art. 346 bis c.p.), incide sulle misure cautelari, ripropone il divieto di appello del PM per le sentenze di proscioglimento e taglia le unghie ai giornalisti, limitando ulteriormente la possibilità di rendere pubbliche le intercettazioni utilizzate nel processo. È una riforma ancora limitata, uno spezzone del progetto più ambizioso del Guardasigilli, che pensa a ulteriori strumenti per rendere più spuntate le armi delle indagini penali, come l’eliminazione della possibilità di uso dei “trojan” per i reati di corruzione, fino ad arrivare ad aggredire i principi che la Costituzione ha posto a tutela dell’indipendenza dell’ordine giudiziario e della separazione dei poteri.
Per quanto riguarda l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, c’è da rilevare che questa scelta ha ottenuto un sostegno trasversale ed è stata approvata in modo bipartisan dal ceto degli amministratori pubblici. Al di là dei riflessi corporativi, la questione del fenomeno della “paralisi della firma” ovvero della “burocrazia difensiva” che sarebbe determinata dall’eccesso di ingerenza dei giudici nell’attività amministrativa, ha una sua ragionevolezza sul piano dell’esperienza, ma le giustificazioni addotte non sono determinanti. Per l’abrogazione del reato si fa riferimento al notevole divario fra i procedimenti iscritti e il modesto numero di condanne irrogate. In realtà, per questo tipo di reato, l’elevato numero di procedimenti iscritti a ruolo deriva direttamente dall’elevato numero di denunce presentate dai cittadini, è frutto della litigiosità rancorosa che percorre il corpo sociale. Se nei fatti si verifica un’estensione impropria della criminalizzazione per eccesso di zelo dei magistrati, il problema riguarda la cultura della giurisdizione, non la legge.
In questo caso la soluzione adottata è peggiore del male che si vorrebbe eliminare. La norma in questione, colpisce comportamenti dolosi del pubblico ufficiale che, in violazione di specifiche norme di legge procura a sé stesso o ad altri, un ingiusto vantaggio patrimoniale, ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
L’abrogazione secca di questo reato comporta che diventino leciti i comportamenti dolosi del Pubblico ufficiale (che non necessariamente è un sindaco, ma può essere anche un magistrato o un poliziotto) che viola specifiche disposizioni di legge per recare un danno a qualcuno o per procurare un vantaggio patrimoniale non dovuto a sé stesso o ad altri. Abrogato l’abuso d’ufficio, a seguito della riforma del codice degli appalti, un amministratore, violando l’obbligo di astenersi, potrà affidare lavori pubblici fino alla soglia di €140.000 a sé stesso e alla propria famiglia, oppure potrà rifiutare di concedere la concessione edilizia – pur se dovuta – alla sua ex moglie, senza subire alcuna sanzione. Inutile dire che in questo modo si dà la stura alle peggiori pratiche clientelari e si rende più opaca l’attività della pubblica amministrazione, a danno dei diritti dei cittadini.
Per quanto riguarda le misure cautelari, che sono la principale barriera a difesa dei diritti dei cittadini vittime di reati, l’intervento della riforma Nordio si muove nella direzione di appesantire le procedure fino al punto da ingolfare il sistema. Esclusi i delitti commessi con uso di armi o altri delitti di rilevante gravità (che normalmente non riguardano i colletti bianchi), è previsto l’interrogatorio preventivo dell’indagato prima dell’eventuale emissione della misura cautelare. Si tratta di un ottimo sistema per favorire la fuga o l’inquinamento delle prove. Poi si prevede che la misura cautelare, che adesso è adottata da un giudice monocratico, il Gip, debba essere emessa da un Collegio formato da tre giudici. L’ordinamento prevede già che contro l’applicazione di una misura cautelare si può fare istanza di riesame a un Collegio composto da tre giudici, che deve decidere entro un termine brevissimo. Con la riforma Nordio si crea una duplicazione di Collegi che intervengono sulle misure cautelari. Peccato che non ci siano giudici a sufficienza per formare tutti questi Collegi. La riforma prevede l’assunzione di 250 magistrati, una goccia nel mare delle necessità, visto che attualmente i posti scoperti in magistratura sono 1.600. In questo modo l’ingolfamento è garantito, anche se è prevista l’entrata in vigore della misura cautelare collegiale dopo due anni dall’approvazione della legge.
Un’altra misura di provata origine berlusconiana è la cancellazione dell’appello del PM contro le sentenze di assoluzione per un considerevole numero di reati. Ci avevano già provato con la legge Pecorella, norma che la Consulta ha dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 26/2007. Adesso ci riprovano, Berlusconi non c’è più, ma i suoi epigoni sono più vivi che mai.
Infine il divieto di rendere pubbliche le intercettazioni versate negli atti del processo, a meno che non siano riportate in un provvedimento giudiziario, è l’ennesimo tentativo di minare gli spazi della libertà di cronaca e di imbavagliare l’informazione. È un vizio assurdo che ritorna in auge.
Qui non si tratta di proteggere la privacy del cittadino comune (le cui dichiarazioni intercettate difficilmente finirebbero sui giornali), ma di tenere indenne il ceto affaristico dalla diffusione di notizie e/o conoscenze che potrebbero essere di interesse pubblico. In questo modo si rende anche più opaca anche l’attività giudiziaria che dovrebbe svolgersi nella trasparenza del controllo dell’opinione pubblica.
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