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Caso Orlandi, la pista internazionale: la strategia dei depistaggi e il ruolo di Wojtyla

Caso Orlandi, la pista internazionale: la strategia dei depistaggi e il ruolo di Wojtyla

Tratto da: Adista Notizie n° 14 del 13/04/2024

 

41818 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Che fine ha fatto Emanuela Orlandi? È stata vittima di una trama di ricatti nei confronti del Vaticano? O il contesto del suo rapimento è quello di un reato a sfondo sessuale finito in tragedia? La sua vicenda è da ascriversi a un fatto di cronaca nera puro e semplice mai emerso nei suoi connotati criminali, o il coinvolgimento diretto o indiretto di qualche prelato d’Oltretevere ha complicato a dismisura la vicenda? È stata rapita e fatta sparire da persone a lei vicine o il suo sequestro è stato messo in atto con abilità da professionisti del crimine?

Sono questi, fra gli altri, gli interrogativi scomodi che accompagnano da sempre le discussioni intorno al caso di Emanuela Orlandi. Quel che è certo è che i depistaggi prevalgono sulle prove concrete a disposizione degli inquirenti. C’è però stato, nella storia del rapimento, un momento fatale, quello del primo mese successivo al sequestro della ragazza quindicenne (avvenuto il 22 giugno del 1983), durante il quale sono arrivate diverse telefonate in Vaticano o a casa Orlandi; questi sono stati gli unici contatti giudicati almeno in parte attendibili dagli inquirenti, l’unica fase in cui la vicenda ha raccontato qualche brandello di verità (il telefono della famiglia venne messo sotto controllo solo a partire dal 28 giugno, il 25 arriva la prima telefonata dei presunti sequestratori). Si legge infatti nella sentenza che chiude la prima inchiesta sul caso di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, quella del 1997, redatta dall’allora giudice istruttore Adele Rando: «L’analisi dei messaggi pervenuti fino al 20 luglio 1983, e concernenti comunque il caso Orlandi, consente di ritenere particolarmente qualificati quei contatti, essendo gli stessi collocati a pochi giorni dalla scomparsa di Emanuela e riflettendo dell’ostaggio informazioni rispondenti al vero; purtroppo però essi costituiscono anche la massima valenza probatoria dell’attuale contesto, non andando mai oltre la mera probabilità di un effettivo rapporto o contatto con la scomparsa». «È infatti costantemente carente – si legge ancora – la prova dell’esistenza in vita dell’ostaggio, circostanza questa che, integrata successivamente con la molteplicità delle rivendicazioni, rende il quadro indecifrabile, consentendo al più di ipotizzare un possibile scambio di informazioni tra soggetti o gruppi interessati ad alimentare l’interesse al caso». Poco più avanti si afferma come dalle indagini emerga «la consistente certezza di un accostamento arbitrario, e quindi strumentale, del caso Gregori al caso Orlandi, nonché il fondato convincimento che il movente politico-terroristico costituisca in realtà un’abile operazione di dissimulazione dall’effettivo movente del rapimento di Emanuela Orlandi, destinato probabilmente a rimanere sconosciuto».

Le telefonate

Uno dei nodi mai del tutto chiariti in questa storia, è appunto quello delle telefonate giunte in Vaticano; gli inquirenti hanno lamentato in proposito una scarsa collaborazione da parte delle autorità d’Oltretevere che non avrebbero mai consegnato registrazioni e trascrizioni alla magistratura italiana. Di più, avrebbero frapposto ostacoli seri alle indagini. Lo scriveva nella sua relazione inviata al giudice Rando nel 1994, Vincenzo Parisi, all’epoca dei fatti, nel 1983, vice capo del Sisde: «L'intera vicenda di Emanuela Orlandi fu caratterizzata da costante riservatezza da parte della Santa Sede che, pur disponendo di contatti telefonici e probabilmente diversi, non rese partecipi dei contenuti dei suoi rapporti la magistratura e le autorità di polizia». «Ritengo – affermava ancora Parisi nella relazione – che le ricerche conoscitive sulla vicenda siano state viziate proprio per il diaframma frapposto fra lo Stato italiano e la Santa Sede, l'intero svolgimento della vicenda fu caratterizzato da numerose iniziative disinformative con fini di palese depistaggio, lasciando nel dubbio gli operatori».

Di tutt’altro avviso il direttore della Sala stampa della Santa Sede, p. Federico Lombardi, che nella nota dedicata al caso Orlandi del 2012, osservava: «Non risulta che sia stato nascosto nulla, né che vi siano in Vaticano "segreti" da rivelare sul tema. Continuare ad affermarlo è del tutto ingiustificato, anche perché, lo si ribadisce ancora una volta, tutto il materiale pervenuto in Vaticano è stato consegnato, a suo tempo, al pubblico ministero inquirente e alle autorità di polizia; inoltre, il Sisde, la Questura di Roma ed i Carabinieri ebbero accesso diretto alla famiglia Orlandi e alla documentazione utile alle indagini». Tuttavia, secondo quanto si legge nella sentenza del 1997, sempre Parisi ipotizzava «una sofisticata operazione di disinformazione e di depistaggio, alla quale doveva probabilmente ricondursi la vicenda Gregori». In ogni caso erano proprio le dichiarazioni di Parisi a far scattare le due rogatorie da parte della magistratura italiana per ascoltare diversi alti funzionari e cardinali della Curia romana, cosa che non fu possibile per il diniego opposto dal Vaticano.

La mitica pista internazionale

In ogni caso, a conclusione della seconda indagine della magistratura, nel 2016, anche la Cassazione poneva una pietra tombale sulla cosiddetta “pista internazionale”, escludendo che vi fosse una possibilità che il rapimento di Emanuela fosse da mettere in relazione a un presunto scambio per la liberazione di Mehmet Ali Agca, l’attentatore di Giovanni Paolo II, o comunque che vi fosse una relazione con l’attentato. E allora per quale motivo il card. Giovanni Battista Re, nel 2017, ancora affermava: «Non sono mai riuscito ad avere in mano nessun riscontro, è solo una mia intuizione. Però, ripensando a quei giorni, mi sono convinto che dietro la scomparsa ci fosse un servizio segreto interessato a mandare messaggi ad Ali Agca, perché non dicesse la verità. Aveva cominciato a parlare e poi ha ritirato tutto»? Un contributo al depistaggio da parte dell’autorevole porporato? O il card. Re non era d’accordo con le conclusioni delle indagini? E se è così, a cosa era dovuta questa sua intuizione? In quanto al peso specifico che potrebbe avere ancora oggi una sua testimonianza, è ancora la nota di p. Lombardi del 2012 a metterlo in luce: «Come ha attestato già in passato e attesta tuttora il cardinale Giovanni Battista Re – allora Assessore della Segreteria di Stato e oggi principale e più autorevole testimone di quel tempo –, non solo la Segreteria di Stato stessa, ma anche il Governatorato furono impegnati nel fare tutto il possibile per contribuire ad affrontare la dolorosa situazione con la necessaria collaborazione con le Autorità italiane inquirenti, a cui spettava evidentemente la competenza e la responsabilità delle indagini, essendo il sequestro avvenuto in Italia». Già, tuttavia le motivazioni andrebbero ricercate Oltretevere, stando almeno al cardinale.

D’altro canto depistaggi e ipotesi investigative si mescolano di continuo in questa intricata vicenda. Fra i testimoni dell’epoca ancora in vita c’è sicuramente il card. Stanislaw Dziwisz, ex segretario personale di Karol Wojtyla, che oggi però vive in Polonia, e il card. Leonardo Sandri, di origine argentina, anch’egli legato al pontefice polacco, all’epoca dei fatti operativo in Segreteria di Stato. D’altro canto diversi di questi nomi sono contenuti anche nella memoria che Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, consegnò al promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi nell’aprile del 2023.

Wojtyla si espone

Resta da dire che Giovanni Paolo II fece ben 8 appelli pubblici per la liberazione di Emanuela Orlandi, un fatto abbastanza inconsueto per la Santa Sede, pur considerando l’impatto mediatico del caso. Soprattutto se si tiene conto del fatto che nelle prime settimane del sequestro gli appelli di Giovanni Paolo II avvennero in modo incalzante. Significativo quello del 21 luglio 1983, avvenuto subito dopo lo scadere di un ultimatum di presunti rapitori che chiedevano in cambio del rilascio della ragazza la liberazione di Ali Agca, senza peraltro precisare alcuna condizione con cu si doveva realizzare lo scambio. «È ancora viva in tutti la speranza che, nonostante sia scaduto il termine del 20 luglio fissato da coloro che hanno nelle loro mani Emanuela Orlandi – recitava l’appello di Wojtyla – la voce della coscienza e gli appelli a essi rivolti particolarmente dall' angosciata famiglia e dal papa, li abbiano trattenuti dal dare esecuzione al proposito omicida da loro manifestato. Condividendo con profonda partecipazione le indicibili ansie dei genitori e dei familiari, il santo padre rivolge un accorato, pressante appello ai responsabili della sorte della giovinetta, perché si inducano finalmente a restituirla incolume all' affetto dei suoi cari, senza porre condizioni che essi stessi conoscono essere inattuabili». «Il santo padre – continuava il testo – in nome di Dio e dell'umanità, supplica i responsabili di aver pietà di una giovane vita, completamente estranea alla questione a cui essi si dichiarano interessati, e di una famiglia già troppo provata dal dolore di questi terribili giorni. Questo il papa insistentemente domanda, insieme con tanti uomini rimasti quasi increduli di fronte all' atrocità di questa vicenda e, in particolare, insieme con i genitori; questo vuole fiduciosamente attendere; per questo egli prega, e invita tutti ad unirsi alla sua preghiera».

Resta da chiedersi come mai se diverse indagini nel corso degli anni hanno smontato la credibilità della pista internazionale, in Vaticano ebbe invece immediato e così largo credito? Certo involontariamente, si può dire che anche papa Wojtyla partecipò allo sforzo per depistare da altre indagini. Ma chi consigliò – dentro e fuori dal Vaticano – il papa ad esporsi pubblicamente in modo così clamoroso? Come nacque la strategia degli appelli del papa sul piano comunicativo e delle ricerche per riportare a casa la quindicenne romana? Oppure c’era una sorta di doppio fondo in quella falsa trattativa: si parlava cioè di Agca ma si intendeva altro? Almeno ad alcuni di questi interrogativi i testimoni ancora in vita potrebbero provare a dare una risposta. Senza dimenticare, infine, che la fine di Emanuela può essere stata anche meno spettacolare del previsto, finita nelle mani di qualche balordo, di qualcuno senza scrupoli (ma abbastanza abile da gestire il sequestro e la scomparsa). Resta da capire, in ogni caso, come e perché si siano accumulate tante zone d’ombra, reticenze e depistaggi. – Fine

*Foto presa da Wikipedia, immagine originale e licenza 

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