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IL PERICOLO DI METTERE TRA PARENTESI LA MODERNITÀ

Tratto da: Adista Documenti n° 64 del 20/09/2008

Voglio scusarmi per il fatto di essere arrivato solo stamattina e di ripartire domattina all’alba, ma è in corso il Sinodo delle Chiese Valdesi e Metodiste che, come sapete, è per noi l’assemblea più importante dell’anno. Ciò mi consente di fare una piccola premessa relativa alla laicità. Lasciando un Sinodo protestante per venire in un’Assise parlamentare, in realtà non è che sia cambiato moltissimo. Infatti, anche in un Sinodo protestante - in cui ricerchiamo insieme la volontà di Dio per noi oggi, riconoscendo solo Lui come massima autorità -, quello che facciamo è confrontarci esclusivamente tra voci laiche, perché tutti siamo laici, pastori compresi, tutti siamo voci libere: nei dibattiti anche contrastati, anche difficili, non c’è mai la possibilità che la questione venga risolta in altro modo.

Volevo fare anche una seconda premessa: stamattina Marco Pannella faceva riferimento a quello che ritengo un grande tabù accuratamente celato, quello della crescita esponenziale della popolazione. Naturalmente non bisogna pensare a soluzioni politiche e a visioni maltusiane, ma io mi chiedo se questa che sembra una questione immorale non sia in realtà uno dei temi più urgenti e morali. Poiché abbiamo deciso contro natura, grazie a Dio, che non si deve più morire di parto, poiché vogliamo allungare la vita e sconfiggere le malattie, poiché, grazie a Dio, alcuni di noi pensano che sarebbe bene abolire anche quell’altro grandissimo, geniale rimedio naturale contro la sovrappopolazione che è la guerra, allora è giocoforza pensare in termini di etica della responsabilità, non di controllo autoritario: quanti esseri umani pensiamo che possano ragionevolmente vivere in queste condizioni, salvaguardando non solo gli umani, ma anche il Pianeta? Io credo che queste domande non si riesca a porle perché ci sono degli interessi ideologici, ahimè, in molti casi religiosi, e politici.

Ma ora passo ai quattro punti del mio intervento.

Il primo lo intitolerei “Verso una post modernità antimoderna?”, richiamandomi a “Il Medioevo prossimo venturo” del futurologo Roberto Vacca. Quando ho cominciato a studiare teologia, mi sembrava che tra i teologi e tra molti intellettuali si desse per scontato, sembrasse in un certo senso ineluttabile – sia che lo si approvasse sia che lo si temesse - che il futuro del mondo, a cominciare dall’Occidente ma non solo, sarebbe stato quello, per riprendere Harvey Cox, della cosiddetta “città secolare”, quello, per citare Dietrich Bonhoeffer, del “mondo diventato adulto”. Cox pensava soprattutto a come si modificasse la religione nelle grandi metropoli; Bonhoeffer faceva riferimento alla modernità, alla scienza e al pensiero filosofico. Invece, a sorpresa, almeno per me, oggi assistiamo ad una rinascita del religioso. Quella religione che si pensava non avrebbe più giocato un ruolo così preminente nella vita pubblica e nella politica, fa invece ritorno, in varie forme che non ho qui il tempo di analizzare, e fa ritorno alla grande. Con tutta una gradazione: dall’autoritario all’aggressivo al polemico all’identitario, fino addirittura al violento. Qui bisognerebbe cominciare ad interrogarsi: come mai avevamo così clamorosamente sbagliato le previsioni? Io non voglio parlare di ciò che a molti verrebbe subito in mente: di un ritorno della religione nella forma teocratica, aggressiva e violenta dei radicalismi, come per esempio quello islamico, o come sta succedendo in India. Come cristiano sono preoccupato della cosiddetta 'rivincita di Dio', soprattutto pensando al nostro contesto occidentale, al protagonismo politico assunto dai gruppi evangelicali o dal cattolicesimo istituzionale. Proprio nel quadro delle democrazie occidentali, vedo un disegno culturale e religioso teso a mettere tra parentesi la modernità e il suo portato di laicità e di pluralismo. E questo appare spesso molto chiaro nei discorsi di Benedetto XVI: è come se lui dicesse, al modo di certe nostre vecchie maestre, “Ragazzi, la ricreazione è finita”.

Di fronte alla fine delle ideologie vi è come il bisogno di un nuovo riferimento metafisico universale ed alcune realtà confessionali si candidano a rispondere a questa domanda. Ma così facendo compiamo un passo regressivo, rinunciamo a quel faticoso approdo alla laicità che ha consentito all'Europa di uscire dai conflitti di religione.

Punto successivo. Negli ultimi decenni si va grandemente sviluppando il dialogo tra le religioni: io ne sono un convinto sostenitore e, per quello che posso, vi prendo parte, ma anche qui vorrei che si individuassero i pericoli di un certo modo di portare avanti il dialogo interreligioso. Dal momento che un musulmano fedele e un cristiano niceno-costantinopolitano non possono evidentemente accordarsi su certi punti, allora spesso si trova una piattaforma di consenso proprio nell’opposizione alla modernità, per recuperare nel mondo uno spazio per Dio. Per me la questione è molto sensibile, perché io, come cristiano protestante, non sono interessato a nessun altro spazio per Dio che non sia quello della fede.

Tutto il resto mi appare molto sospetto: questa rivendicazione di uno spazio per Dio, che, poverino, sarebbe stato estromesso, che cosa vuol dire, poi? Vuol dire famiglia, vuol dire difesa della vita fin dal concepimento, vuol dire un certo tipo di matrimonio, come se già Adamo ed Eva si fossero sposati pensando di stare insieme tutta la vita e di vivere 90 anni come oggi, e non ci sia stato mai nessun altro modello di famiglia e di matrimonio.

E c’è un altro pericolo legato a questo consenso polemicamente antimoderno tra le religioni: che, in questo modo, si soffochi il pluralismo interno, un trend che riscontriamo in tutte le religioni e confessioni, di modo che, in questo clima di contrapposizione, si è cattolici soltanto così, si è veri protestanti soltanto così, se non sei come me sei fuori ecc. Mentre la modernità comportava anche questo: il fatto, cioè, che non soltanto si debba accettare l’esistenza di una pluralità di religioni – che vi siano protestanti, cattolici, ortodossi, ebrei ecc. - ma anche che all’interno di una comune identificazione ci possa essere articolazione e dibattito. Oggi, invece, tutto tende a ricompattarsi.

E un altro pericolo possibile di questo dialogo interreligioso è che le religioni vengano sottratte al pensiero critico. Circola ormai una vulgata del seguente tenore: “Se ognuno nella sua religione seguisse gli insegnamenti dei suoi sacerdoti e dei suoi scritti sacri, praticamente ci sarebbe il Regno di Dio in Terra”. Ma io non voglio sviluppare il mio discorso cristiano senza assumere il fatto, per esempio, che la Bibbia - amatissima, insostituibile - contiene violenza. Invece oggi si tende a sostenere che la religione in quanto tale sarebbe esente da colpe, ma che le religioni vengano poi strumentalizzate per interessi politici, economici, ideologici ecc.

Al contrario, dobbiamo riconoscere che, come in tutto ciò che riguarda l’umano, anche nella religione ci può essere una produzione di violenza autoctona, perché appunto noi maneggiamo delle provette esplosive, la Verità. In questo clima di oggi, invece, in cui tutto il male viene ricondotto al fatto che l’umanità si è emancipata dalla religione, improvvisamente si ricrea una specie di limbo in cui la religione diventa esente da critiche.

Il terzo punto riguarda l’Italia, e il titolo sarebbe: “Il caso singolare del Paese di Padre Pio e degli atei devoti”. Io spesso devo tenere discorsi come questo ad un uditorio straniero ma il fatto è che, mentre noi in Italia prendiamo molto sul serio gli atei devoti, parlando in Europa continentale o negli Stati Uniti, e dunque traducendo il concetto in tedesco o in inglese, la gente si sbellica dalle risate perché, in quelle culture, non si tratta neanche di un ossimoro, ma di un non sense. Non si può essere devoti essendo atei. Noi protestanti insegniamo addirittura che essere devoti è sempre sospetto.

Io non ce l’ho con Bagnasco: ci polemizzo una settimana sì e una no, ma il problema sta da un’altra parte. Faccio solo questo esempio: pensate al sindaco Veltroni che si è fatto schiaffeggiare dal papa e il giorno dopo ci ha spiegato che il papa, quando parla, lo fa su un altro piano e tutti dobbiamo ascoltarlo in silenzio. Secondo me, un sindaco cat-tolico-romano di Monaco di Baviera che fosse stato sbeffeggiato così dal papa qualcosa avrebbe detto. Io non credo però che sia soltanto una questione di ricerca di voti: temo che sia un problema più grave. Un problema per il quale io mi sento ormai molto pessimista. Ve lo dico con una battuta ripresa da Marx: “Lutero, in verità, vinse la servitù per devozione mettendo al suo posto la servitù per convinzione”. Quella era una sua lettura del luteranesimo che io non condivido. In ogni caso, in Italia è andata diversamente: la servitù per devozione è rimasta e in più se ne è aggiunta un’altra per convinzione.

Prima Emma Bonino parlava di un anticlericalismo religioso. Quando Bonhoeffer scriveva nelle sue lettere dal carcere che dobbiamo vivere “etsi deus non daretur”, che non dobbiamo più avere Dio come ipotesi di lavoro nel nostro argomentare pubblico, lui non pensava affatto ad una teologia della morte di Dio come poi si è detto negli anni Sessanta. Lui argomentava, da piissimo luterano quale era, a partire dalla teologia della Croce, cioè dal centro del Nuovo Testamento.

Allora vi propongo una riflessione: non soltanto bisogna accettare la laicità, ma anche promuoverla come l’unico spazio in cui anche le religioni posso essere valorizzate. Perché quale religione può essere contenta se viene accettata perché presupposta, perché obbligatoria, perché fondativa?

Il cristianesimo, semmai, dovrebbe essere il più convinto nel sostenere questo statuto, perché se Cristo è la rivelazione di Dio, mica si è messo d’accordo prima col sindaco di Gerusalemme per avere una scorta e per evitare che ci fosse qualche gruppo di omosessuali a sfottere lui e i suoi discepoli.

Oggi c’è il terrore di ridurre tutto ad un’opinione, ma che cos’è il Golgota se non Dio in Cristo che si espone a due opinioni opposte, quella di chi gli sputa addosso e lo sbeffeggia e quella di chi dice “questi è veramente il figlio di Dio”?

Tradurre il discorso cristiano in una presenza senza privilegi, senza tutele, senza rete, senza alcun presupposto non è soltanto una ragionevole soluzione moderna, ma dovrebbe essere - lo dico da teologo cristiano - l’immediata conseguenza del fatto che il mio discorso su Dio è legato al Golgota e non a qualche altra illuminazione. E lo stesso si può dire per l’anticlericalismo. Se c’è una religione che è nel suo nucleo, secondo noi protestanti, strutturalmente anticlericale, nel senso di riconoscere che non c’è più nessun sacerdozio e quindi non c’è più nessuna tutela, questa è quella cristiana: tu sei messo davanti all’unico che è Gesù Cristo e devi sbrogliartela tu. Mi sembra che il contributo che noi cristiani potremmo dare a questo dibattito non sia soltanto quello di preoccuparci di orientare un po’ la laicità: noi cristiani dovremmo avere il coraggio di cavalcare questa tigre e di essere i primi, proprio per quello che abbiamo capito di Dio, a promuovere libertà e anticlericalismo.

 

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