DAI BASSI MONDI AL VERTICE
- OBAMA HA POCO TEMPO PER FARE DEGLI STATI UNITI UN REGNO DOMINATO DAL BENE E DALLA PACE.
Tratto da: Adista Contesti n° 84 del 29/11/2008
Questo articolo di Boaventura De Sousa Santos è stato pubblicato sull’Agenzia brasiliana “carta maior” (9/11/2008). Titolo originale: “a egemonia do bem?”
L’elezione del presidente Obama è un fatto di globale e assoluta importanza per tutti coloro che credono nella possibilità di un mondo migliore. Negli ultimi 15 anni, due altri avvenimenti hanno rivestito questa magica qualità: l’elezione di Nelson Mandela come presidente del Sudafrica nel 1994 e i 15 milioni di cittadini che sono scesi per le strade del mondo, il 15 febbraio 2003, per protestare contro l’invasione dell’Iraq. Molto diversi fra di loro, questi tre eventi hanno in comune una concezione post-nazionalista del mondo. Il mondo è la città natale della speranza e quello che succede in un Paese chiede rispetto da parte di tutti gli altri. Condividono anche il fatto di essere testimoni dell’inesauribile creatività della specie umana, nel meglio come nel peggio. I tre fatti sono stati considerati impossibili fin quasi al momento di bussare alla nostra porta. Condividono anche la capacità magica degli esseri umani di dar vita incondizionatamente a momenti di comunione libera dalle costrizioni della realtà, come se questa fosse uscita per pranzo e non fosse ancora rientrata. Ma la relazione fra la vittoria di Obama e gli altri due avvenimenti è anche più profonda. Obama e Mandela sono due uomini con forti radici in Africa, di cui sono orgogliosi. Mandela è, oltretutto, un leader di nobile lignaggio Xhosa, e Obama è membro dell’etnia Luo del Kenya (una etnia discriminata prima e dopo l’indipendenza), come riferisce con naturalezza nel suo libro bestseller. Le sue identità sono state tessute con la memoria della sofferenza ingiusta, della segregazione, del colonialismo. Mandela simboleggia il caso estremo di una maggioranza sottomessa per decenni a un crudele sistema di apartheid. Obama, malgrado non sia egli stesso discendente di schiavi, simboleggia il riscatto dall’indicibile sofferenza che è stata inflitta agli afroamericani, una sofferenza tanto naturalizzata dagli oppressori che è continuata fino ai nostri giorni sotto forma di razzismo. Oltre al voto dei bianchi, Obama ha conquistato il voto schiacciante dei cittadini afro-discendenti e latino-discendenti e ha conquistato anche il voto di una minoranza quasi dimenticata, i giovani.
La sua è la vittoria delle minoranze che hanno scoperto che, unite, sono la maggioranza. Negli ultimi 15 anni, l’Africa si è mostrata al mondo con le fattezze di questi due giganti fino a rispondere: Basta! agli insulti della Banca Mondiale e del Fmi per i quali l’Africa è il continente infelice dove il capitalismo globale ha deciso di depositare moltitudini di esseri umani considerati di scarto. Per una via tutta sua, affrancata dal passato coloniale, l’Africa arriva al protagonismo mondiale, conquistato negli ultimi due decenni dall’Asia e dall’America Latina (che è anche Afro-latina e Indo-latina).
La relazione tra la vittoria di Obama e i milioni di persone che hanno protestato contro la guerra illegale e ingiusta all’Iraq non è meno rilevante. Non sono riusciti ad impedire la guerra, proprio come è successo al senatore Obama, uno dei pochi ad aver votato contro di essa. Ma ora, come presidente, ha la possibilità di metter fine a questa guerra e d’altronde è ciò che ha promesso ai suoi elettori. Quelli che l’hanno votato chiedono inoltre che ponga fine alla guerra gemella che opprime l’Afghanistan. In questo campo, il suo stato di grazia sarà breve, tanto nel Paese quanto nel mondo. L’Afghanistan ha una memoria e una storia esaltanti di lotte vittoriose contro invasori stranieri ben più potenti militarmente. Non ci sono armi che lo pieghino. Tutto fa pensare che Obama privilegerà la diplomazia e che comprenderà che Al Qaeda non può essere distrutta militarmente. Può, questo sì, essere isolata dalla pace e dalla cooperazione non colonialista. La vittoria di Obama significa che, alla fine, chi ha protestato non l’ha fatto invano.
Mettere insieme questi tre fatti che sembrano spingere l’umanità verso il meglio di sé può stupire, giacché la vittoria di Obama ha, pare, un significato globale incomparabilmente superiore agli altri due. Questo squilibrio è il risultato della prerogativa egemonica degli Usa nel mondo di oggi, una prerogativa in declino, soprattutto in campo economico, e tuttavia ancora molto forte, nel bene e nel male. L’11 settembre “ha trasformato il mondo”, è stato detto, quando altre popolazioni subiscono ogni anno attacchi tanto ingiusti, tanto criminali e molto più devastanti di quello alle torri gemelle, senza che ciò meriti la benché minima notizia. Analogamente, un piccolo Paese, il Paraguay, ha eletto nel 2008 un vescovo, teologo della liberazione, per liberare il Paese dalla più odiosa oligarchia senza che il fatto meritasse una dettagliata informazione sulla stampa internazionale.
Obama ha il privilegio di poter offrire al mondo un momento glorioso di egemonia del bene. Solo per questo potrà passare alla storia. Questo momento non durerà molto. La realtà non suole fermarsi a lungo quando esce a pranzo. Alla fine tutto dipenderà da come l’impulso del bene si confronterà con quello del male. E tutto inizierà negli Usa, Paese contraddittorio e sofferente. Contradditorio, perché è lo stesso popolo che otto anni fa “ha eletto” Bush, il peggior presidente della storia Usa. Sofferente, perché la stupidità, l’avarizia e la corruzione che hanno dominato alla Casa Bianca lasceranno il Paese sull’orlo del fallimento finanziario e morale. Quest’ultima è stata rapidamente riscattata da Obama. Per la prima sarà molto difficile.
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