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GOLPE IN HONDURAS: LA CHIESA NON HA NIENTE DA DIRE

Tratto da: Adista Notizie n° 76 del 11/07/2009

35111. TEGUCIGALPA-ADISTA. È ancora presto per dire che ne sarà di Roberto Micheletti - il presidente golpista dell’Honduras sul cui capo pesa la condanna unanime della comunità internazionale - e dei suoi compagni di colpo di Stato. Ma, a giudizio di pressoché tutti gli osservatori, il governo di “Gorilletti”, come è stato ribattezzato l’ultimo golpista dell’America Latina, peraltro figlio di un emigrante bergamasco, ha i giorni contati. La situazione nota nel momento in cui scriviamo è che il presidente legittimo Manuel Zelaya - eletto nel 2006 con i voti dei conservatori del Partito Liberale (lo stesso a cui appartiene Micheletti), ma poi avvicinatosi alle posizioni bolivariane dell’Alba (“Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America”), fino all’ingresso nell’organismo nel 2008 - ha posticipato a sabato 4 luglio il suo ritorno in Honduras (prima previsto per il giovedì), che effettuerà in compagnia di José Miguel Insulza, segretario dell’Oea (da cui, se entro sabato Zelaya non sarà formalmente reintegrato, l’Honduras verrà sospeso), della presidente argentina Cristina Kirchner, del presidente ecuadoriano Rafael Correa e di diversi ministri degli Esteri. Nel frattempo, il governo de facto ha dichiarato che Zelaya verrà arrestato al suo ingresso nel Paese, mentre prosegue e si intensifica la resistenza interna (e pacifica) e il Congresso Nazionale ha emesso un decreto che sospende le garanzie individuali consacrate nella Costituzione, a cominciare dal diritto di riunione e di organizzazione.

 

E la Chiesa tace

In attesa di capire come si evolveranno gli eventi, una cosa risulta però già sufficientemente chiara, ed è il comportamento della Chiesa honduregna: se nella settimana ormai trascorsa dall’inizio del golpe (avvenuto il 28 giugno), tutti hanno condannato il governo de facto - dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite all’Organizzazione degli Stati Americani, dall’Unione Europea agli Stati Uniti (questi ultimi, forse, a giudicare dalle prime ambigue dichiarazioni della Casa Bianca, più sollecitati dal ripudio internazionale e dalla fermezza dei Paesi latinoamericani che realmente convinti), dal Gruppo di Rio all’Alba (da cui è giunta, com’era prevedibile, la risposta più dura) - non una sola parola ufficiale è giunta dalla Chiesa. Neppure dopo il ringraziamento tributato alla Chiesa cattolica e a quella evangelica da Micheletti, nel suo discorso dopo il giuramento al Congresso, per le preghiere che, ha assicurato il presidente golpista, hanno sostenuto la sua lotta. 

L’unico a parlare - peraltro in una conversazione telefonica con Religión Digital - è stato p. Germán Calíx, segretario esecutivo della Caritas honduregna e stretto collaboratore del card. Óscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e presidente della Caritas Internationalis, assicurando che la Chiesa cattolica condanna il colpo di Stato (“Il golpe – ha detto Calíx – non è una soluzione per la vita democratica”), ma al tempo stesso esige da Zelaya il rispetto della Costituzione, da cui il presidente si sarebbe allontanato con la sua iniziativa di consultazione popolare - in realtà prevista dalla Legge di Partecipazione Cittadina - che è stata all’origine del colpo di Stato.

Com’è noto, il presidente aveva chiesto il popolo, proprio il 28 giugno, di pronunciarsi sul tema della “quarta urna”, cioè sull’opportunità che alle elezioni del prossimo novembre per il rinnovo della presidenza, del congresso e delle autorità locali, si aggiungesse una consultazione sulla convocazione o meno di un’Assemblea Costituente. Il tentativo di promuovere una maggiore partecipazione reale del popolo non è ovviamente piaciuto alle “13 famiglie” che reggono le leve del potere in Honduras, Congresso e Corte Suprema di Giustizia comprese, spaventate dall’eventualità di una riforma della Costituzione sul tipo di quelle già realizzate in Venezuela, in Bolivia e in Ecuador. E - proprio in linea con quanto avvenuto negli altri tre Paesi dell’Alba, dove la Chiesa si è sistematicamente schierata con l’oligarchia (fino ad appoggiare, in Venezuela, il fallito golpe del 2002) e contro il popolo - non è piaciuto nemmeno ai vescovi dell’Honduras.

Già il 19 giugno, nove giorni prima del golpe, la Conferenza episcopale aveva emesso un comunicato in cui, tra ovvi richiami al dialogo tra tutti i settori della società “non solo per superare la crisi attuale ma anche per individuare un progetto di nazione su cui lavorare uniti”, e altrettanto ovvie assicurazioni riguardo all’importanza e alla necessità di consultare il popolo nelle questioni di maggiore importanza, faceva presente che “un vero canale di partecipazione cittadina non può essere aperto contro le stessi leggi”: “Non si può - si leggeva nel comunicato - disobbedire alla Legge in nome delle persone che si vogliono beneficiare, come non si può essere democratici senza rispettare la Democrazia”.

Il cardinale che parla chiaro

Contro chi però della democrazia ha fatto scempio, addirittura rinverdendo i fasti della tradizione golpista latinoamericana, i vescovi dell’Honduras hanno ritenuto preferibile non dire neanche una parola, neppure quel cardinal Maradiaga che a molti piace definire progressista. Lo stesso cardinale che, intervistato da Famiglia Cristiana (sul numero del 5 luglio) in occasione della sua partecipazione, il 25 giugno, al Convegno nazionale della Caritas italiana a  Torino, è stato invece molto chiaro nell’attaccare il presidente venezuelano Hugo Chávez: “C’è chi tenta - ha detto - di riciclare un vecchio modello ideologico, anche se lo chiama socialismo bolivariano. Non è comunismo, ma solo capitalismo mascherato, perché a pagare sono sempre i poveri”. Aggiungendo che “tra Teheran e Caracas, due Paesi petroliferi strategici, ci sono voli diretti. Servono per trafficare denaro e armi. Ma nessuno ne parla”. Io, invece, “sono abituato a parlare chiaro. L’ho fatto anche sullo Zimbabwe circa la repressione del presidente Mugabe e non mi hanno dato più il visto”.

Non ha parlato invece, il cardinale, del golpe nel suo Paese, tra una riunione e l’altra a cui – come ha dichiarato p. Calíx nell’intervista rilasciata a Religión Digital – sta partecipando per evitare che il colpo di Stato finisca in un bagno di sangue. I vescovi, ha aggiunto il segretario della Caritas honduregna, sarebbero disposti a partecipare ad una commissione di dialogo convocata dal governo de facto – governo con cui, al contrario, nessuno in America Latina è disposto a trattare –, nella convinzione che “le riforme non possono venire da un caudillo, per via autoritaria e, ancor meno, attraverso un colpo di Stato”, ma che sia necessario “aprire gli spazi per una maggiore partecipazione e individuare soluzioni politiche ai problemi del Paese”. In ogni caso, ha detto, l’arrivo di Zelaya potrebbe essere “catastrofico”, in quanto rischierebbe di provocare uno scontro tra manifestanti e forze di polizia. (claudia fanti)

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