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LE VITTIME AFRICANE, LUOGO TEOLOGICO E SPIRITUALE

Tratto da: Adista Documenti n° 103 del 17/10/2009

Anche questo secondo Sinodo per l’Africa si svolge a Roma. Spero che un giorno possa realizzarsi il vecchio sogno dei padri della teologia africana: e cioè che queste assise così importanti della vita della Chiesa si tengano in terra africana; che si possa un giorno celebrare questa messa sul mondo all’interno delle contraddizioni, dei conflitti e delle speranze dei territori e delle comunità africane.

Vi invito a ricordare oggi il mio grande maestro, purtroppo scomparso, Jean-Marc Ela, prete e teologo coraggioso, un intellettuale africano che non ha avuto paura di lasciare le cattedre universitarie cui era destinato per andare nel Nord del Camerun, a piedi nudi, a condividere l’espe-rienza degli ultimi. E per lui non si trattava di retorica. Grazie a questa esperienza, padre Jean-Marc Ela è stato il grande inventore della teologia africana della liberazione.

Durante la colonizzazione, noi abbiamo subìto una doppia conversione come cristiani africani: prima ci siamo convertiti alla cultura, alle lingue e alla civiltà europea e poi, con queste vesti prese a prestito, siamo andati incontro a Cristo. È chiaro che Cristo non ha incontrato l’uomo africano: ha incontrato un africano edulcorato, alienato, lontano da sé.

Ela ed altri pensavano che, per completare l’opera del Concilio, oltre a ballare e pregare nelle nostre lingue nelle chiese, gli africani avrebbero dovuto meditare la Parola e da qui tracciare dei cammini di liberazione: una Parola in grado di dire qualcosa di nuovo e di diverso sulle situazioni di prostrazione economica e sociale che vivono gli africani. Quella che Jean-Marc Ela chiamava la “clochardizzazione” di massa di tutto un continente, quella che egli definiva la doppia solitudine dei popoli africani: soli di fronte ai meccanismi della globalizzazione, ma anche soli di fronte ai loro dirigenti locali, che hanno ritagliato per se stessi l’ignobile compito di essere unicamente gli intermediari d’affari tra il mondo esterno e i loro territori.

Quel mondo della clochardizzazione di massa di cui Ela parla abbondantemente nel suo libro è anche il mondo della riscossa africana, il mondo della società civile, anche se Ela non ama molto l’espressione “società civile”, preferendo parlare di “nuclei di resistenza e di innovazione”: quei segmenti di società africana che si sono costituiti fuori dall’uffi-cialità, fuori dalle statistiche della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, e addirittura “contro” questa ufficialità. Perché l’Africa ufficiale ha fallito, mi dispiace dirlo. Siamo cresciuti insieme, io e l’Africa: ho cinquant’anni, e l’anno prossimo celebreremo le indipendenze africane. Siamo cresciuti ma siamo cresciuti male, non abbiamo saputo mettere in pratica i sogni dei padri, li abbiamo traditi.

La riscossa dell’Africa, secondo Ela, sarebbe avvenuta attraverso quest’altra Africa: i nuclei di resistenza e innovazione, quel barlume di speranza che nasce in una discarica, perché anche nel fetore di una discarica possono nascere dei fiori profumati.

Compito della cooperazione, compito del Sinodo, è quello di ritrovare quella perla nera, quei centri di resistenza e innovazione ignorati dai grandi circuiti dei media e delle ong, a volte anche dei missionari. Jean-Marc Ela ne parlava come possibilità di riscossa del continente africano.

Ela ha subìto un’umiliazione durante il precedente Sinodo. Lui e altri teologi, costretti a radunarsi nelle catacombe o in qualche chiesa. Loro che erano la voce più autentica, più autorevole, più vicina al vissuto: “lievito nella pasta”, mentre ci sono alcuni che pretendono di essere lievito fuori dalla pasta. Eppure sono stati costretti qui a Roma a fare i teologi delle catacombe, a radunarsi negli scantinati delle parrocchie.

E, quindi, ora che ci accingiamo ad entrare in un nuovo periodo sinodale, dobbiamo ricordare quell’insegnamento, abbiamo il diritto e il dovere di riprendere in mano questo loro messaggio. La Chiesa, come la stessa società africana, non potrà entrare nella globalizzazione con dignità se non saprà recuperare i saperi endogeni - quel grande serbatoio antropologico che è ancora vivo nell’Africa ferita e offesa ma ancora indomita - e riscoprire la Parola come momento di liberazione, come possibile epifania di un avvenire diverso.

 

Fallimento ufficiale

Il bilancio tracciato dal Sinodo dell’Africa di oggi è corretto: il fallimento dell’Africa ufficiale.

È un fallimento a livello economico. Sul numero di Limes del 29 settembre, che parla della crisi economico-finanziaria nel mondo, ho curato la parte riguardante l’Africa: qui gli effetti della crisi sono devastanti. Quei pochi progressi che si sono riscontrati negli ultimi anni sono stati vanificati. L’Africa, che cominciava a registrare una crescita del 5%, quest’anno crescerà di uno striminzito 2,7%. Ed è una crescita basata su prodotti minerari e agricoli, senza valore aggiunto, senza vantaggi per le popolazioni e il territorio. La crisi economica si innesta inoltre sulla crisi agricola che l’ha preceduta e che ha determinato le sommosse del pane e del riso in molte città africane.

I processi di democratizzazione che abbiamo tutti sognato agli inizi degli anni Novanta, salutandoli come la primavera africana, oggi sono morti: stiamo anzi tornando alla successione per eredità familiare. La metamorfosi dei regimi africani è quella della trasmissione del potere di padre in figlio.

E oltre al fallimento dell’Africa economica ufficiale, oltre all’arresto dei processi di democratizzazione, la pace che non c’è. Qualcuno dice che abbiamo posto fine a grandi conflitti, in Angola, in Sierra Leone: ma cosa significa porre fine ai conflitti se non si avviano processi di giustizia sociale in Paesi come l’Angola, che oggi produce più petrolio del Kuwait ed è il primo fornitore di petrolio della Cina? L’Angola non aveva bisogno di aiuti o di ong: perché gli angolani non vivono del loro petrolio? Appena si entra a Luanda, si ha la sensazione di una povertà che abbraccia tutto. Finché non risolveranno la questione della giustizia sociale, questi Paesi saranno sempre instabili. L’ingiustizia redistributiva in Africa, innestata sui meccanismi dell’economia internazionale, è una bomba ad orologeria. Pancia piena non combatte, pancia vuota è pronta a tutte le avventure. I bambini a volte si arruolano per un piatto di fagioli al giorno.

Questi sono segni dei tempi: il segno profetico che dobbiamo tenere a mente quando parliamo di Africa.

In mezzo a questo disagio, però, c’è anche una grande effervescenza della società civile, dei nuclei di resistenza e di innovazione. Io penso che, come missionari e come operatori umanitari, noi dobbiamo ripensare la nostra presenza: dobbiamo individuare i nuclei di resistenza e innovazione, non sostituirci ad essi. Potrebbe essere una madre in un campo profughi, una maestra che fa bene il suo lavoro, un’infermiera che è sempre puntuale agli appuntamenti con i suoi malati. È da lì che bisogna partire: nessuno può essere gravido della speranza di un altro, dobbiamo tutti essere ostetrici e aiutare l’Africa a partorire la sua speranza. E noi dobbiamo essere testimoni felici di questa nascita, accompagnatori, catalizzatori dell’epifania di questa speranza.

Chi non assume quest’ottica resti pure qui, che c’è tanto da fare anche senza andare in Africa.

 

La vita di mezzo

Termino con il tema dell’immigrazione. Quando nel 1998 abbiamo celebrato i cosiddetti 500 anni della circumnavigazione dell’Africa da parte di Vasco De Gama, abbiamo scritto su Nigrizia un articolo che diceva: bene l’Africa, attenzione agli africani che vivono qui. Sono molti, infatti, ad amare l’Africa, forse troppi. È più difficile dedicare la stessa attenzione, provare lo stesso afflato per gli africani in carne ed ossa che vivono qui. Secondo me la missione ad gentes - del Cimi, di Nigrizia, di Popoli e Missione, dei centri diocesani - nei confronti dell’Africa deve cominciare, per essere credibile, con gli africani che vivono in Italia.

Il deserto del Sahara: la madre da dove trae linfa la nostra vita, la vita di tutti, perché tutti veniamo dall’Africa, è lì che si è compiuta quell’evoluzione che ci ha condotto dalla condizione di scimmia antropomorfa a quella di homo sapiens sapiens.

Il Mar Mediterraneo: mare del dialogo, incontro di civiltà.

Io mi proibisco e vi proibisco di parlare ancora del Sahara come della culla della umanità e del Mediterraneo come del luogo di incontro tra le civiltà, perché sia il Sahara che il Mediterraneo sono diventati giganteschi cimiteri a cielo aperto. E quei morti - 14mila tra il 1988 ad oggi, ed è una stima al ribasso - sono esseri umani che ci interpellano. E le generazioni future chiederanno a tutti noi: “Dove eravate quando tutto questo stava accadendo?”. Dove siamo?

Se voi attraversate il deserto del Sahara tra il Niger e la Libia, gli scheletri degli esseri umani si confondono con quelli dei dromedari. Questo è un segno dei tempi.

Ho chiesto che una manifestazione del Sinodo si svolga a Lampedusa, per togliere a tutti noi il pretesto di dire “non sapevamo quello che stava accadendo”. Lampedusa è un po’ il simbolo di tutto questo.

Il diritto alla vita, di cui qui si fa un gran parlare, non può e non deve riguardare solo il credente. E non deve essere semplicemente il diritto alla vita dell’embrione e il diritto terminale del malato.

Se vogliamo essere credibili, anche la vita di mezzo deve avere la stessa dignità e la stessa cogenza magisteriale del-l’Humanae Vitae e delle altre encicliche sociali e politiche. Se non ha la stessa cogenza magisteriale, significa che qualcosa non va, che si tratta di ideologia.

La Chiesa, di cui voi rappresentate la parte più avanzata, quella del Concilio, oggi, parlando del Sinodo africano, non può non fare di questi morti un luogo teologico e un luogo spirituale.

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