SETTE VITE E UN ALDILÀ
- La fede, la vita, la morte e il mistero secondo il teologo svizzero Hans Küng. Che non risparmia critiche al Vaticano
Tratto da: Adista Contesti n° 121 del 28/11/2009
Tratto dal settimanale tedesco "Stern" (15/10/2009). Titolo originale: "‘Ich habe sieben leben gelebt. Ich bin bereit für den tod’"
Signor Küng, la mia zia 98enne ha un grosso problema: è sicura di andare in Paradiso e che là troverà suo marito, i suoi figli e conoscenti, ma si chiede in che condizione siano: giovani, vecchi, malati o sani?
Capisco che sua zia sia preoccupata. Non si sa che cosa ci aspetta al di là della porta della morte, io non posso e non voglio immaginare il paradiso.
Ogni persona ama costruirsi immagini, ma deve sapere che sono solo sue immagini. Viviamo nell’epoca post-Copernico e Darwin, e quindi non ci si può più immaginare il paradiso come hanno fatto Michelangelo o i pittori del Medio Evo o del Barocco. Io non credo a queste semplicistiche immagini del paradiso, secondo cui si sta seduti su una seggiolina dorata e si canta “Alleluia”.
Papa Benedetto è convinto che in qualche modo nell'aldilà si stia seduti tutt'intorno. Recentemente ha detto che il suo predecessore, Giovanni Paolo II, era affacciato al balcone della casa del Signore a guardarci: quindi c'è un morto che guarda giù.
Questa è una rappresentazione incredibilmente naïf. Il Papa a volte si esprime in modo pre-moderno e populista, che deriva dalla sua fede bavarese contadina. Naturalmente anche lui sa che il paradiso non è una residenza sopra le nuvole con finestre celesti. I cristiani illuminati capiscono che nell'aldilà non viene risvegliato alcun cadavere, ma che – come si dice nella liturgia – avviene una completa trasformazione del modo di essere. Sono curioso, chissà come sarà nell'aldilà.
Signor Küng, della sua vita qui sulla terra, però, lei dev’essere proprio deluso.
Perché mai?
Ha scritto più di 60 libri, più di 30mila pagine e...
Io lavoro molto volentieri. Modestamente, ho già fatto qualcosa per rendere il cristianesimo, la religione, l'etica di nuovo comprensibili all'uomo moderno.
Nonostante il suo zelo...
Non sono mai stato né sono un fanatico né un santo, scrivo per persone in ricerca.
Malgrado il suo impegno, dal 1989 in Germania le due maggiori Chiese hanno perso più di sette milioni di fedeli, e alla preghiera del mercoledì a Roma partecipano ogni anno due milioni e mezzo di persone in meno rispetto qualche anno fa, sotto Giovanni Paolo II. Per la sua fede Lei si è consumato le dita a scrivere, ma invano.
No, ho avuto successo! Ogni giorno moltissime persone mi scrivono che io sono stato un aiuto per loro. Senza volerlo, sono diventato un portavoce della leale opposizione a sua Santità. Un portavoce che viene preso sul serio anche dallo stesso papa. Sono presente dentro e fuori la Chiesa. Senza di me molti avrebbero abbandonato la Chiesa, molti mi dicono: “Fintanto che lei resiste nella Chiesa, resisto anch'io”.
Tuttavia, ha perso la sua battaglia. Il suo avversario Ratzinger...
Non è il mio avversario, e la mia professione non è di criticare il papa. Sono un riformatore, non un sovversivo. E detesto essere costantemente chiamato ribelle della Chiesa o...
Il suo avversario è diventato papa, entra nella storia. Lei sarà una nota a pie’ di pagina.
È piuttosto scortese ciò che sta dicendo, Lei non può vedere nel futuro, Lei...
Ma sarà così!
Lei pensa? Il modo in cui una persona entra nella storia, lo decide la storia stessa. Non è la funzione ad essere importante e nemmeno il potere. Un esempio: Tommaso d'Aquino – non intendo mettermi al suo livello – aveva volontariamente rinunciato a qualsiasi incarico importante nella Chiesa, mentre papa Innocenzo III, suo contemporaneo molto colto, fu il più potente di tutti i papi; lei conosce Innocenzo III? No. Questo papa, all’epoca potentissimo, oggi è una nota a pie’ di pagina, tutt’al più ancora importante per gli storici. Tommaso d'Aquino, invece, viene continuamente citato ancora oggi come un'autorità. No, non mi sento un perdente.
È ovvio che lei deve dire così e la deve vedere in questo modo.
Certo che la vedo così! Ma qualcos’altro mi addolora nella vita: che Joseph Ratzinger, che nel 1966 ho portato all'Università di Tubinga, non abbia proseguito sulla stessa via della riforma che ho seguito io. Infatti probabilmente oggi non avremmo questa spaccatura della Chiesa cattolica in Chiesa superiore e Chiesa inferiore. Io rappresento la Chiesa inferiore, lui tiene alla Chiesa superiore. Tutto il mio lavoro è stato finalizzato al cambiamento della Chiesa superiore autoritaria. E in questo - qui ha ragione lei - io ho avuto solo un successo parziale. Però: chi ha vinto una battaglia è ancora lungi dall'aver vinto la guerra. Io credo che l'attuale politica del Vaticano sarà un fiasco. Il tentativo di risospingere indietro la Chiesa nel Medio Evo la svuota. Non si possono riportare in vita i vecchi tempi!
Ma mi dica, perché 200 anni dopo l'Illuminismo si deve ancora credere in Dio?
Sì, proprio da persona illuminata le dico: ci sono mille motivi per non farlo.
Su questo punto ha proprio ragione.
Di fronte all’infelicità nel mondo e nella propria vita si può o dubitare di Dio o avere fiducia in Dio. Non c'è nessuna prova strettamente scientifica a favore di Dio, la sua esistenza non può essere fondata su argomenti logicamente vincolanti. Proprio secondo Immanuel Kant: la ragione teoretica pura non ha competenza al di fuori di tempo e spazio. Quindi l'esistenza di Dio non può basarsi su argomenti logicamente convincenti.
Non l’avrei mai detto!
Non mi prenda in giro! Lei certamente ha ancora in mente, da una parte, la sua fede infantile, però, dall’altra, anche la sua ragione non ha competenza nella questione della fede. L'esistenza di Dio è una questione di fiducia ragionevole.
Fiducia ragionevole? A me sembra piuttosto irragionevole, e penso che Mark Twain abbia ragione: “Fede significa credere in qualcosa che si sa non essere vero.”
Una pessima battuta. Io però le rispondo molto seriamente con un versetto della lettera agli Ebrei: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.” Quindi: nonostante i suoi dubbi ci sono mille motivi per cui una persona, nonostante tutte le avversità della vita, può credere in Dio.
Me ne dica uno.
Ho appena scritto un intero libro proprio su questo: “Quello in cui credo”. La fede è innanzitutto una questione di fiducia di fondo. Fiducia nella vita. Vorrei invitarla ad ammettere Dio almeno come ipotesi. Prenda la questione filosofica fondamentale: perché una cosa è invece di non essere, oppure l'inspiegabile origine delle fondamentali costanti della natura o della velocità della luce. Ma anche il problema dell'infinito in matematica, le tracce della trascendenza nella musica: tutto ciò può costituire un invito a credere in Dio.
Lo scienziato Richard Dawkins risponderebbe, a queste parole che suonano così belle...
…Io direi piuttosto: parole che suonano vere!
Lui direbbe: tutte le religioni insegnano assurdità e sono pericolose per l'umanità.
Non mi venga a parlare di questi nuovi atei! Dawkins è un ideologo che reagisce ad un'immagine di Dio superata e argomenta in modo quanto mai polemico, senza tuttavia apportare nuove conoscenze. È uno studioso di scienze naturali, senza apertura a questioni filosofiche. Io mi sono occupato dei grandi atei classici, ho analizzato Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud. Loro costituiscono per me una sfida dal punto di vista intellettuale, non questo...
“La religione - dice Marx - è il sospiro della creatura oppressa, è l'anima di un mondo senza cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza spirito. È l'oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”.
Marx ha ragione: la religione può essere l'oppio del popolo. La religione può essere un mezzo di acquietamento e consolazione sociale. Ma non deve esserlo. Le analisi di Marx esprimono, forse contro le sue intenzioni, anche qualcosa di positivo, e cioè che la religione può essere molto di più: una protesta contro le condizioni che abbiamo, una protesta contro le circostanze a causa delle quali soffriamo.
Questa è un'interpretazione audace. “La critica della religione”, dice ancora Marx, “è in nuce la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l'aureola”.
Religione solo come riverbero? Qui Marx – come già Feuerbach – fa un cortocircuito! La religione è più di una proiezione. Come la fede, la speranza e l'amore, essa non si esaurisce solo nel fatto di far sopportare la miseria agli uomini in maniera cosciente o in maniera rassegnata! No, la religione può essere un motivo eccezionalmente forte, come disse Marx, non solo per interpretare il mondo in modo diverso, ma per cambiarlo.
Mio Dio, che mondo è quello che ha creato il suo Dio. Mentre noi stiamo parlando, crescono senza sosta le montagne di cadaveri, ogni cinque secondi un bambino al di sotto dei dieci anni muore di fame o di sete. Stiamo parlando da trenta minuti scarsi – 360 bambini morti!
Perché Dio non ha impedito il male? Già nel 300 avanti Cristo il filosofo greco Epicuro rivolge questa domanda contro la religione. Ma forse dovremmo prima chiederci: perché gli uomini non hanno impedito il male? Di fronte al male, ogni persona che crede in un Dio buono si confronta in questo mondo con un mistero che...
Il fatto che i bambini muoiano di fame Lei lo definirebbe mistero?
No. Un mistero è perché Dio non ha impedito il male. Il dolore innocente dei bambini non può essere giustificato con alcuna argomentazione. “Perché soffro? Questo è il macigno dell'ateismo”, viene detto nella tragedia di Büchner “La morte di Danton”. Sì, perché soffriamo? Questa è la domanda primaria dell'uomo. Lei, Signor Luik, sa dare una risposta?
Lei, Signor Küng, lei è il cristiano credente. Io attendo con ansia la sua risposta.
Che non è facile. Appartiene al mistero anche il perché gli uomini non facciano di più contro il dolore. In ogni caso non di può attribuire tutta la colpa a Dio. L'umanità proprio nel “progredito” XX secolo ha vissuto il male in una misura fino ad allora sconosciuta: stragi di Stato, Auschwitz, l'industrializzazione del massacro. Come ha potuto Dio permettere una cosa del genere? Il mistero della sofferenza non può essere risolto con i mezzi della ragione.
Lei la fa troppo facile.
Neanche per sogno. Né con la psicologia, né con la filosofia né con la morale il buio della sofferenza si lascia trasformare in luce. Dio rimane l'incomprensibile.
Signor Küng, al di là delle parole difficili: il suo Dio era ad Auschwitz?
Parole difficili? Dell'orrore dell'olocausto, Dio non è responsabile. Certamente, se Dio esiste - e io ci credo -, allora era anche ad Auschwitz.
Ma che Dio è, che è ad Auschwitz e non impedisce Auschwitz!
Questo è un grido di protesta che io capisco. E sono convinto di questo: la mostruosa realtà di Auschwitz non può essere liquidata nemmeno con ardite speculazioni su un Dio sofferente. A questo posto si addice una teologia del silenzio. Ma perfino ad Auschwitz era possibile la fede: credenti di religioni diverse hanno rivolto a Dio la loro preghiera perfino in questa fabbrica di morte, perché erano convinti che, nonostante tutto, Dio esistesse. E lei, da parte sua, deve chiedersi: il suo ateismo spiega l'olocausto? La sua mancanza di fede spiega il mondo, riesce a consolare chi si trova in una sofferenza priva di senso? No! Nessuno dei grandi spiriti dell'umanità che io ho letto ha risolto il problema originale della sofferenza e del male.
Nemmeno il cristianesimo, però, che – cosa alquanto assurda – parla del Dio buono, benevolo, misericordioso. Un Dio che tutto sa, che tutto guida.
Ma questa è un’immagine medievale del Dio onnipotente, che manovra tutti gli eventi cosmici.
Allora ho studiato male la religione!
No, Dio è spirito, che agisce dentro, con e in mezzo agli uomini, ma rispettando la loro libertà. E questa libertà comprende inevitabilmente anche il male. L'uomo sofferente non può penetrare il segreto del progetto del creatore sul mondo.
La sofferenza, enorme, insensata – tanto individuale che collettiva – non può essere compresa a livello teoretico, nel migliore dei casi solo superata a livello concreto. Gli ebrei – anche i cristiani – per quanto riguarda l’estrema sofferenza hanno la figura di Giobbe davanti agli occhi. Quest'uomo perde tutto, senza averne alcuna colpa: il suo patrimonio, la sua famiglia, la sua salute, diventa un mendicante, viene colpito dalla lebbra. Si lamenta con Dio e rifiuta tutti gli argomenti a favore di Dio. Con questo mostra che l'uomo non necessariamente deve accettare il dolore. Ha il diritto di insorgere, di protestare, di ribellarsi ad un Dio che gli appare feroce, perfido e astuto; e attraverso queste prove Giobbe ritrova Dio!
La prego, questa è una favola.
Questa è letteratura mondiale altamente drammatica. Ma più ancora di Giobbe, per me come cristiano è questo Gesù che viene abbandonato, flagellato, schernito, che muore lentamente sulla croce, ad avere anticipato l’atroce esperienza dell'olocausto.
Per lei come cristiano questa morte è sicuramente una morte salvifica, che...
...che rinvia oltre la miseria, il dolore, la morte! Perfino per degli scettici come il marxista Horkheimer era intollerabile credere che la miseria avesse l'ultima parola. Deve esserci una giustizia ultima proprio per i poveri, i miseri di questo mondo! E i bambini che soffrono senza colpa, possono avere il conforto che questa vita non è tutto, ma che hanno davanti a sé una vita priva di dolore.
Lo dice lei stesso: la fede è oppio.
No, non è qualcosa di illusorio, è conforto.
Lei ha ora più di 80 anni e...
...Sono consapevole del fatto che la mia fine terrena è vicina. Una volta pensavo – già, ho avuto una vita faticosa – che non sarei arrivato ai 50 anni. Ora faccio i conti con la morte, può arrivare in ogni momento. Chi ogni giorno tiene la morte davanti agli occhi, ne ha meno paura. Sono pronto. Ho vissuto sette vite. Non mi concedo alcuna nostalgia di vecchiaia, non mi aggrappo spasmodicamente alla giovinezza. A volte mi chiedono: “Come vorrebbe morire?” Sorridendo rispondo: “Durante un viaggio di lavoro!”. Ed ora aggiungo: “Ad ogni modo non in una casa di cura.”
Il suo amico, il professore di retorica Walter Jens, è sprofondato in un mondo al di là del pensiero, al di là delle parole, è affetto da demenza. È stato un difensore dell'eutanasia attiva, sua moglie Inge dice: “Ha perso il momento giusto in cui avrebbe potuto passare dalla vita alla morte”.
Per me la vita è un dono di Dio, del quale sono responsabile. E fino all'ultimo respiro. È rimessa alla mia responsabilità e non a quella della Chiesa o del papa o di un prete, di un medico, di un giudice. È mia responsabilità e in ultima analisi sono io responsabile di fronte alla più alta istanza: Dio. Dico solo che non vorrei mancare il momento giusto.
Che cosa si aspetta alla fine della vita?
Come ho detto, sono curioso. La morte è per tutti una prima. Ho la fondata fiducia che non finirò in un nulla. “Era tutto qui?”, ha scritto Kurt Tucholsky, che si è tolto la vita nel 1935: “Se dovessi morire adesso, direi: ‘Era tutto qui?' e: 'Non ho capito bene.” E: “È stato un po' confuso”. Ma no, io non la penso così. Non è tutto qui. Io credo alla vita eterna.
Walter Jens una volta mi ha detto che lassù avrebbe incontrato volentieri Heinrich Böll e Willy Brandt.
Certo, anch'io incontrerei molto volentieri certe persone. In ogni caso preferirei Mozart a Brandt, e mi piacerebbe conoscere Tommaso Moro. Ma che ne so? Le fantasie non rendono giustizia alla serietà della morte.
E che cosa dirà a Dio, nel caso esistesse, quando le chiederà: “Che cosa hai fatto per rendere il mondo migliore?”
So che non mi farà questa domanda, perché lo sa già.
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