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Un attentato alla vita

Tratto da: Adista Documenti n° 27 del 19/07/2014

«La Chiesa è presente in Amazzonia non come chi sta con le valigie in mano, pronto a partire dopo aver sfruttato tutto il possibile» (papa Francesco ai vescovi del Brasile, Rio de Janeiro, 27 luglio 2013).

Il nostro Paese ha intensificato, negli ultimi anni, una politica di crescita economica che passa per lo sfruttamento delle risorse naturali per l’esportazione. Tale modello economico non è di certo nuovo e già ci ha lasciato segni di disuguaglianza sociale e di ingiustizia ambientale: i vantaggi restano nelle mani di pochi, mentre le conseguenze e i danni, molti dei quali irreversibili, gravano sulle spalle delle comunità indigene, contadine, ribeirinhas e quilombolas, ripercuotendosi in un ulteriore ingrossamento di molte delle nostre città. Pur non essendo un modello nuovo, stiamo assistendo a una sua intensificazione, che ci riporta alla memoria le politiche dell’erroneamente definito “sviluppo” promosse dal Regime Militare negli anni ‘70.

Tale realtà appare schiacciante nella regione amazzonica. Decine di progetti di medie e grandi centrali idroelettriche stanno sbarrando il corso dei fiumi che costituiscono il bacino amazzonico, dal Teles Pires al fiume Branco, dal Madeira al Tapajós e allo Xingu, passando per altre dighe progettate su fiumi amazzonici di Paesi vicini, come il Perù e la Bolivia. Le conseguenze ambientali di questi grandi progetti sono incalcolabili e irreversibili, come già sufficientemente dimostrato da studi scientifici e dalla stessa esperienza di progetti del passato. E l’impatto sui territori e sulla vita di tante comunità ribeirinhas e indigene, e in particolare sui popoli indigeni isolati, sarà gravissimo.

I grandi progetti idroelettrici non sono pensati per le comunità locali e per i territori. Rispondono a interessi più grandi, quelli di grandi imprese nazionali e transnazionali, e all’idolo della crescita macroeconomica che la miopia politica insiste a perseguire. Centrali idroelettriche e sfruttamento minerario sono sempre andati insieme: ogni progetto idroelettrico apre la porta, favorisce e alimenta i grandi progetti minerari per l’esportazione che girano intorno all’Amazzonia.

Il governo federale si propone di moltiplicare per quattro lo sfruttamento minerario nel nostro Paese entro il 2030. Nel corso dei prossimi anni, incrementerà grandi progetti estrattivi, che è il motivo per cui è impegnato, insieme al Congresso Nazionale, a favore dell’approvazione del Nuovo Codice Minerario. Circola ancora nella Camera dei Deputati il progetto di legge 1610/99, che mira a regolamentare l’attività mineraria in terre indigene, senza alcuna misura di salvaguardia dei luoghi sacri o di protezione delle comunità.

L’Amazzonia, come è noto, è una regione agognata da grandi imprese transnazionali e da settori politici ed economici del nostro Paese che condividono gli stessi interessi minerari. Ricordiamo i 30 anni dall’inizio dello sfruttamento del Carajás come dimostrazione del fatto che l’attività mineraria su larga scala produce conseguenze funeste: è un tipo di economia che assorbe la maggior parte delle attività economiche senza riuscire a diversificarle né a costruire una prospettiva di sostenibilità nella regione. Che provoca l’arrivo di migliaia di lavoratori, la creazione spontanea di insediamenti urbani e l’accumulo di tonnellate di rifiuti. Non esistono esperienze riuscite di politiche cautelative relativamente alla fine dell’attività mineraria: quando lo sfruttamento minerario si esaurisce (molto spesso prima del previsto), le conseguenze prodotte diventano irreversibili e il recupero sociale, economico e ambientale risulta compromesso.

A chi può interessare una crescita economica siffatta? È questo lo sviluppo in cui crediamo, quello che genera vita per tutti e vita in abbondanza? 

A maggio, popoli indigeni di Roraima, Guiana e Venezuela, insieme al Cimi (Consiglio indigenista missionario), all’Isa (Istituto Socioambientale) e ad altri, si sono riuniti nella comunità di Tabalascada per il I Seminario su miniere e centrali idroelettriche in terre indigene. Durante l’incontro, i popoli indigeni hanno sollevato la loro voce ferma e chiara contro questi grandi progetti nei propri territori. «Per noi, quello che ha importanza è la terra, la vita, le foreste, gli animali, la cultura, la tranquillità e la garanzia di questo modo di vita per le future generazioni», afferma il documento finale dell’incontro. Del territorio della Guiana, il 68% potrebbe essere interessato da progetti minerari e idroelettrici. In Venezuela, avanzano le concessioni di vaste aree amazzoniche del Paese a imprese cinesi, mentre il 90% delle terre indigene non è ancora stato demarcato. In Brasile, oltre alla presentazione di proposte legislative mirate a consentire e facilitare tali attività nei territori indigeni, si stanno investendo risorse pubbliche (di tutti noi!) nel finanziamento di grandi progetti in Paesi vicini, come il Perù, la Bolivia e la Guiana.

I popoli indigeni hanno il diritto di essere consultati e di definire liberamente la strada da seguire. In una Nota della Hutukara Associação Yanomami–HAY, Davi Kopenawa Yanomami afferma saggiamente: «Noi non siamo contro lo sviluppo: siamo solo contro lo sviluppo che voi bianchi volete spingere avanti sulle nostre teste [...]. Noi yanomami abbiamo altre ricchezze lasciate dai nostri antenati che voi bianchi non sapete cogliere: la terra che ci dà vita, l’acqua pulita che beviamo, la soddisfazione dei nostri bambini». Gli Stati, a loro volta, hanno l’obbligo legale e morale di consultare i popoli indigeni su qualsiasi attività economica o iniziativa legislativa che li riguardi e di rispettarne le decisioni.

I popoli amazzonici sono portatori di un enorme contributo per la vita e per il nostro futuro. La loro profonda spiritualità, la loro relazione con la Madre Terra, con le foreste, i fiumi e ogni forma di vita con cui convivono, la loro impressionante riserva di conoscenze indicano a tutti noi cammini differenti e umanizzanti. 

Lo sfruttamento minerario e le centrali idroelettriche sono due aspetti di un progetto economico lesivo non solo per i popoli indigeni, ma per tutta la società e il pianeta. Un progetto che attenta alla vita e al futuro delle generazioni che verranno dopo di noi. Come afferma il Documento di Aparecida a conclusione della V Conferenza Episcopale dell’America Latina e dei Caraibi, «la nostra sorella e Madre Terra è la nostra casa comune e il luogo dell’alleanza di Dio con gli esseri umani e con tutta la creazione. Ignorare le mutue relazioni e l’equilibrio che lo stesso Dio ha stabilito tra le realtà create è un’offesa al Creatore e un attentato alla biodiversità e, in ultima istanza, alla vita» (DAp.125).

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