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Tra spirito olimpico e violazione dei diritti. Un bilancio delle Olimpiadi di Rio de Janeiro

Tra spirito olimpico e violazione dei diritti. Un bilancio delle Olimpiadi di Rio de Janeiro

RIO DE JANEIRO-ADISTA. Leonardo Boff le ha definite come «metafora di un'umanità umanizzata»: le Olimpiadi, che in quest'ultima edizione hanno registrato la partecipazione di 206 delegazioni (più dei 193 Paesi rappresentati all'Onu), sarebbero, secondo il celebre ecoteologo brasiliano, «uno dei pochi spazi in cui l'umanità si incontra con se stessa, come un'unica famiglia»: «l'assaggio di un'umanizzazione sempre perseguita ma mai definitivamente conquistata, perché ancora non abbiamo abbastanza maturato la consapevolezza di condividere un unico destino con la nostra Casa comune, la Terra» (www.servicioskoinonia.org, 13/8). Tuttavia, al di là della cerimonia di apertura di uno «splendore ineguagliabile» (e in cui c'è stato anche spazio per l'allarme sul riscaldamento globale) e al di là delle emozioni a cui hanno dato vita gli atleti di tutto il mondo - sufficienti a riportare in secondo piano aspetti non proprio esaltanti come l'inquinamento della baia di Guanabara, l'inquietante acqua verde della piscina dei tuffi, i tanti spalti vuoti, gli episodi di criminalità, le polemiche sugli alloggi degli atleti, qualche inopportuno fischio del pubblico - le Olimpiadi di Rio de Janeiro, presidiate da 68mila agenti di sicurezza (sette per atleta), hanno evidenziato tuttavia anche aspetti nient'affatto in linea con la direzione indicata da Boff. Come «Giochi dell'esclusione e della militarizzazione» li ha per esempio definiti il sociologo Raúl Zibechi (www.naiz.eus, 9/8), il quale, citando il rapporto dell'ong Giustiça Global sulle "violazioni dei diritti nella città olimpica", ha posto l'accento sull'inasprimento dei «processi di segregazione socio-spaziale, di controllo e privatizzazione dello spazio pubblico, di sterminio della popolazione nera e povera».

Le cifre parlano chiaro: per realizzare gli impianti olimpici sono state sgomberate 77mila persone, in quella che il rapporto definisce come «la maggiore politica di rimozioni forzate della storia della città», a cui bisogna aggiungere l'espulsione dei venditori ambulanti e del popolo della strada (contro cui gli atti di violenza sono cresciuti del 60% nei mesi da marzo a luglio), arresti di massa e il massiccio impiego di militari nelle favelas, il vertiginoso aumento del numero di civili morti a causa di interventi della polizia (più di un caso al giorno da aprile e giugno, con un aumento del 103% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente). Tant'è che, secondo quando evidenzia il direttore generale di Amnesty International Brasile Átila Roque (CartaCapital, 3/8), «il principale lascito delle Olimpiadi sarà l'inasprimento di un modello militarizzato di pubblica sicurezza, centrato sull'idea della guerra al crimine» nei territori delle favelas e delle periferie. Né è un caso che, dal 2013 al 2016, le spese per la pubblica sicurezza abbiano registrato un'impennata, passando dal 10 al 15% del bilancio dello Stato di Rio de Janeiro, a fronte della caduta degli investimenti nell'educazione, passati dal 12 al 10%. Cosicché non può affatto sorprendere il dato secondo cui, per il 63% dei brasiliani, le Olimpiadi porteranno più danni che benefici al Paese.

Nel segno del “Fora Temer”

Ma ai Giochi di Rio è andato in scena anche il dramma che sta vivendo il Paese, dove si è ormai quasi consumato il colpo di Stato parlamentare-giudiziario-mediatico contro la presidente Dilma Rousseff, sospesa temporaneamente dalle sue funzioni (ma la sua destituzione è ormai certa, dopo il via libera del Senato, lo scorso 10 agosto, alla procedura di impeachment) e sostituita dall'attuale presidente ad interim Michel Temer, la cui enorme impopolarità (sarebbe addirittura il 79% dei brasiliani, secondo i sondaggi, a non volerlo alla guida del Paese) è emersa in maniera imbarazzante proprio durante la cerimonia iniziale, quando, malgrado tutte le precauzioni impiegate per nasconderne il più possibile la presenza, è stato letteralmente sommerso dai fischi al momento della sua rapidissima dichiarazione di apertura dei Giochi (motivo per cui si è ben guardato dal farsi vedere alla cerimonia di chiusura). Ma il "Fora Temer" (Fuori Temer) - risuonato già nella manifestazione di protesta contro la “Calamità olimpica” promossa, simultaneamente alla cerimonia iniziale, dal Fronte Brasile Popolare, dal Fronte Popolo senza paura e dal Fronte di sinistra - ha accompagnato praticamente tutta la durata delle Olimpiadi, occupando per esempio il percorso della maratona femminile del 14 agosto, lungo il quale si sono succeduti cartelli e manifesti contro il presidente golpista e le sue misure politiche (dallo smantellamento dei programmi sociali alla privatizzazione della Petrobras), come pure gli spalti dei vari impianti sportivi: una protesta che il Cio (il Comitato Olimpico Internazionale) ha cercato inizialmente di reprimere, appellandosi all'articolo 28 della legge olimpica (che in realtà vieta appena messaggi offensivi e di carattere razzista o xenofobo), finché non ha dovuto arrendersi al pronunciamento del giudice federale João Augusto Carneiro Araújo a favore del diritto costituzionale di libertà di espressione e di manifestazione.

Il fatto è che, come hanno evidenziato molti osservatori, tanta acqua è passata sotto i ponti dalla scelta di Rio de Janeiro come sede delle Olimpiadi (le prime in terra latinoamericana). All'epoca, era il 2009, il Paese viveva una crescita che sembrava inarrestabile, avviandosi a diventare - così si credeva - la quinta potenza più industrializzata del pianeta. E l'allora presidente Lula, adorato da una popolazione che salutava il proprio ingresso nel paradiso dei consumi, poteva contare sull'appoggio di quasi tutta la classe politica, governando praticamente senza opposizione. Il «grande conciliatore», colui che - come ha evidenziato la scrittrice e documentarista Eliane Brum (El País, 1/8) - era convinto di poter combattere la povertà senza toccare i privilegi dei ricchi, attraverso un incremento nell'esportazione di materie prime «promosso come se potesse durare per sempre» (e «senza includere nel conto l'enorme costo socio-ambientale»), così salutava allora la vittoria della candidatura di Rio de Janeiro: «Bisogna far festa, perché il Brasile è uscito dalla categoria di Paese di seconda classe ed è diventato un Paese di prima». E ancora: «Nessuno ha ora più dubbi sulla grandezza economica del Brasile, sulla sua grandezza sociale ». Le Olimpiadi, così come i Mondiali di calcio, prosegue Eliane Brum, «erano state immaginate come l'apoteosi dell'eterno Paese del futuro finalmente giunto a un presente glorioso».

E invece è sopraggiunta la crisi, riportando bruscamente il Brasile con i piedi per terra, facendolo piombare in una realtà di recessione economica e di caduta del potere d'acquisto e, con ciò, di voltafaccia e tradimenti politici, fino all'apertura di un impeachment senza alcun fondamento giuridico, che avrà il suo scontato finale a partire dal 25 agosto prossimo. E, con ciò, l'esplosione di contraddizioni irriducibili, come quella, conclude Eliane Brum, «di un governo di sinistra che aveva già da molto tempo smesso di esserlo» o quella «del sostegno dei movimenti sociali al mandato di una presidente che ha autorizzaro una legge che criminalizza i movimenti sociali» o, ancora, quella «di fingere che chi è oggi al potere non fosse l'alleato di ieri».

* Immagine di Ian Burt. Tratta dal sito Flickr. Immagine originale e licenza.

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