
L'offensiva giudiziaria fermerà il sogno di Lula? I movimenti continuano a scommettere sull'ex presidente
BRASILIA-ADISTA. Neanche il tempo di ricevere finalmente una buona notizia - la richiesta di proscioglimento per insufficienza di prove in relazione all'accusa di ostruzione alla giustizia - e subito è caduta una nuova tegola sull'ex presidente Lula: il procuratore generale della Repubblica Rodrigo Janot ha incriminato lui, Dilma Rousseff, quattro ex-ministri (Antonio Palocci Filho, Guido Mantega, Edinho Silva e Paulo Bernardo), la senatrice Gleisi Hoffmann e l'ex tesoriere del Pt João Vaccari Neto per associazione a delinquere (reato punibile con una pena da 3 a 8 anni di prigione), nell'ambito dell'inchiesta Lava Jato. L'accusa è quella di aver «promosso, costituito, finanziato o integrato», tra il 2002 e il 2016, «un'organizzazione criminale» di cui il Pt avrebbe fatto parte, insieme, tra gli altri, al PMDB e al PP, ricevendo, nel complesso, 1,5 miliardi di reais (475 milioni di dollari) di tangenti, «utilizzando enti pubblici quali la Petrobras, la Banca nazionale per lo Sviluppo e il ministero della Pianificazione».
Riguardo in particolare a Lula, Janot chiede una pena maggiore che per gli altri accusati, in quanto leader della presunta organizzazione criminale, e questo fin dal 2002, quando, per la sua campagna elettorale, avrebbe accettato denaro dalla Odebrecht, la prima multinazionale edilizia e ingegneristica dell’intero continente latinoamericano, promettendo in cambio favori, e assicurando così alla holding, dal 2005 al 2015, una crescita dei profitti di ben 13 volte.
Un'incriminazione, quella decisa da Janot, che ha suscitato nuove polemiche, non avendo la Procura generale fornito alcuna prova del reato, basandosi essenzialmente sull'uso della delação premiada, la collaborazione con i magistrati in cambio di uno sconto di pena, rivelatasi già più volte estremamente inaffidabile. Non a caso, la procura federale ha appena riconosciuto che l’ex senatore Delcidio Amaral aveva mentito riguardo al fatto che Lula si sarebbe accordato con l’imprenditore André Esteves per comprare il silenzio dell’ex direttore del colosso petrolifero Petrobras Nestor Cerveró sulle presunte tangenti per cui l’ex presidente è accusato.
E se non ci sono dubbi che il Pt sia scivolato in pieno sulle pratiche di corruzione divenute abituali nello Stato brasiliano, ancora meno ve ne sono sul fatto che contro il Partito dei lavoratori si sia scatenata l'offensiva di quella che non a caso è stata definita come “Repubblica giudiziario-mediatica”.
Un'offensiva funzionale al principale obiettivo delle destre: impedire con ogni mezzo al fondatore del Pt di ricandidarsi nel 2018.
Sulla strada di una possibile candidatura di Lula pesa però come una spada di Damocle anche la condanna in primo grado a 9 anni e 6 mesi per corruzione, comminatagli lo scorso 12 luglio dal giudice Sergio Moro, per il presunto occultamento della proprietà di un attico a Guarujà intestato all'impresa di costruzioni Oas, che l'ex presidente avrebbe acquistato a un prezzo di favore, in cambio del suo intervento in favore dell’assegnazione di appalti con la Petrobras.
Ed è stato anche per reagire a tale condanna che Lula si è lanciato nell'iniziativa della carovana per il Nordest del Paese, sua storica roccaforte elettorale, che lo ha visto, dal 17 agosto al 5 settembre, percorrere 28 municipi, dialogando con i cittadini su un nuovo modello di sviluppo per il Paese, secondo la modalità senz'altro più congeniale all'ex presidente operaio, quella del contatto diretto con la gente, che, nel Nordest, lo ha ripagato con grandi espressioni di solidarietà e di sostegno. Con la carovana “Lula per il Brasile”, il fondatore del Partito dei Lavoratori ha voluto così far ritorno a una forma di lotta rivelatasi assai fruttuosa in passato, quella delle “carovane per la cittadinanza” con cui, tra il 1993 e il 1996, l'ex dirigente sindacale aveva avuto modo di visitare ben 359 città, per poi diventare, sei anni dopo, il primo presidente operaio nella storia del Paese. E lo ha fatto puntando decisamente alle elezioni presidenziali del 2018, condanna permettendo.
È certo, in ogni caso, che su di lui continuino a scommettere, oltre al Partito dei Lavoratori, anche i movimenti sociali, convinti che Lula sia l'unico in grado di battere le destre e di riportare il Brasile sul cammino abbandonato in seguito al golpe parlamentare-giudiziario-mediatico che, ha precisato Lula, non è stato solo contro l'ex presidente Dilma Rousseff o contro il Pt, ma «contro l'educazione e la salute pubbliche, contro i diritti dei lavoratori e dei pensionati, per la privatizzazione delle imprese pubbliche e del pre-sal, per la de-nazionalizzazione dell'Amazzonia». Un golpe, insomma «contro il Paese», quel Paese che Lula - e l'ex presidente lo ha ricordato con fierezza durante la carovana - era uscito a unire intorno a un progetto di sviluppo economico con inclusione sociale, liberando dalla miseria 35 milioni di persone ed elevando le condizioni di vita di altri 40 milioni di brasiliani. Un'impresa, questa, che, se aveva permesso a Lula di terminare il suo mandato di 8 anni, nel 2010, con una popolarità intorno all’80%, era stata comunque accompagnata da diverse ombre, a cominciare dall'incapacità di produrre una reale redistribuzione della ricchezza, da cui avevano tratto vantaggio proprio i settori privati dell’industria e delle finanze. Non per niente, come evidenziava allora Atilio Boron, se al programma “Bolsa Familia”, il fiore all'occhiello delle politiche sociali dei governi del Pt, venivano destinati 20 miliardi di reais, gli interessi sul debito pubblico ne divoravano 240, vale a dire che, sottolineava il sociologo, «in un anno gli squali della finanza dentro e fuori il Brasile ricevono come compensazione per i loro ingannevoli prestiti l’equivalente di dodici programmi “Bolsa Familia”».
Ma intanto Lula, nel suo ruolo di “grande conciliatore”, di arbitro al di sopra delle classi, convinto di poter combattere la povertà senza toccare i privilegi del grande capitale rurale e urbano, aveva fagocitato tutti, compresi i movimenti sociali, governando praticamente senza opposizione.
Finché, dopo un periodo di crescita sostenuta dovuta anche all'alto prezzo delle materie prime, non è sopraggiunta la crisi a riportare bruscamente il Brasile con i piedi per terra, facendolo piombare in una realtà di recessione economica e di caduta del potere d'acquisto e, con ciò, di voltafaccia e tradimenti politici, fino all’esaurimento di quel Patto di convivenza stabilito nel 2002 tra il Partito dei Lavoratori (Pt) e le classi dominanti - con cui è stata, sì, assicurata a lungo la governabilità, ma a condizione che non venissero toccati gli interessi dell’oligarchia -, al conseguente golpe contro Dilma e alla restaurazione neoliberista del governo Temer, con le sue selvagge misure di austerità, dalla riforma del lavoro a quella del sistema previdenziale, passando per la privatizzazione dell'educazione superiore e il ridimensionamento dei programmi sociali, nonché per vari attacchi all'ambiente (fino al decreto, poi sospeso, che prevedeva l'abolizione della più grande area protetta dell'Amazzonia, la riserva di Renca, grande più della Danimarca, per permetterne lo sfruttamento minerario).
In questo scenario, in vista delle elezioni del 2018, i movimenti non vedono allora altra alternativa che tornare a scommettere su Lula, convinti che, se dovesse riconquistare il governo, seguirebbe stavolta una strada diversa rispetto all'alleanza con settori della destra e dell’agribusiness (i cui rappresentanti hanno trovato posto sia nei governi di Lula che in quelli di Dilma), dando vita a un governo maggiormente orientato a sinistra.
Foto di Ricardo Stuckert/PR tratta da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza
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