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La normativa europea e il nodo dei diritti umani

La normativa europea e il nodo dei diritti umani

Tratto da: Adista Documenti n° 22 del 15/06/2019

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Nel  2017 nell’Unione Europea (UE), su circa 510 milioni di residenti, figuravano 38,6 milioni di stranieri (21,6 milioni di cittadinanza non comunitaria e 16,9 milioni cittadini di uno Stato membro della UE). I dati relativi agli spostamenti per il 2016 mostrano che 4,3 milioni di persone si sono trasferite in un Paese della UE, compresi quanti provenivano da un altro Paese dell’Unione, con un calo di quasi l’8% rispetto all’anno precedente, mentre circa 3 milioni hanno lasciato il loro Paese. Quasi un milione di persone (994.800) nel 2016 ha acquisito la cittadinanza di un Paese della UE. In modo schematico, si può parlare di tre regioni della UE in relazione all’immigrazione. La prima è l’area Nord-Occidentale, in cui rientrano i Paesi di più antica tradizione per l’attrazione, prima, di lavoratori, poi di famiglie immigrate: Germania, Francia e Regno Unito sono i principali. La seconda è la regione dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo), passata negli ultimi decenni da terra di tradizionale emigrazione ad area di prevalente attrazione di consistenti flussi d’immigrazione, malgrado la recente crescita di nuovi flussi in uscita. La terza è la regione centrorientale, bloccata fino al 1989 dal dominio dell’Unione Sovietica e diventata in seguito un’importante area di provenienza di nuove migrazioni. Al contrario di quanto si crede comunemente, in Europa come in Italia, la maggior parte degli immigrati sono europei.

Fin dagli esordi della costruzione politica dell’Unione Europea, la libertà di movimento attraverso i confini nazionali e la possibilità di cercare lavoro in altri Stati membri sono stati considerati obiettivi-chiave, al pari della libertà di circolazione di beni e servizi. Il progressivo superamento degli ostacoli alla mobilità dei lavoratori e l’ingresso di nuovi Paesi nell’Unione hanno gradualmente allargato il mercato del lavoro interno alla UE, mentre le regole relative alla protezione sociale dei lavoratori e delle loro famiglie li hanno dotati della parità di accesso ai servizi pubblici all’estero a partire dal 1971.

Lo sviluppo di un libero mercato del lavoro interno è stato promosso però in contrapposizione alla chiusura selettiva nei confronti dei lavoratori esterni all’Unione.

L’attuazione di questo quadro normativo si è però rivelata più complessa e travagliata del previsto. Non tutti gli Stati membri hanno accettato di condividere la politica comune della UE, mentre alcuni Stati esterni hanno accettato di cooperare su determinati argomenti. In particolare, Regno Unito, Irlanda e Danimarca hanno adottato solo alcuni elementi delle politiche europee in materia di controllo delle frontiere, mentre Islanda, Norvegia e Svizzera hanno aderito alle regole di Schengen.

L’obiettivo di una politica migratoria comune della UE è stato finora raggiunto solo parzialmente. L’attenzione si è concentrata soprattutto sul controllo dei confini e sulla sicurezza, dove la cooperazione tra gli Stati membri ha conseguito risultati sostanziosi. In questo ambito, un progressochiave è consistito nell’istituzione nel 2004 di un’Agenzia europea per la gestione della cooperazione nel controllo dei confini esterni della UE, comunemente conosciuta come Frontex. La sua capacità operativa è stata rafforzata nel 2011, quando è stata lanciata inoltre la proposta dell’introduzione di un Sistema europeo di sorveglianza dei confini (EUROSUR). Per completare il quadro, una strategia «per lo sradicamento del traffico di esseri umani (2012- 2016)» è stata adottata dal Consiglio europeo nel 2010.

In sintesi, gli Stati membri dell’Unione non stanno perdendo il controllo sui flussi migratori, come a volte si sostiene, ma si stanno rapidamente adattando alle pressioni interne ed esterne, ricorrendo a una combinazione di nuove misure volte a controllare l’immigrazione indesiderata.

Al contrario, le politiche di ammissione di nuovi residenti, l’integrazione sociale degli immigrati e la protezione dei diritti umani non hanno compiuto i medesimi progressi, avendo incontrato una fiera resistenza da parte degli Stati membri. I Governi nazionali hanno difeso le loro prerogative in materia, mentre le istituzioni europee hanno ampiamente fallito nel tentativo di stabilire regole e politiche comuni.

La politica europea di questi anni si rivela quindi sbilanciata in favore delle misure di sicurezza. Gli ambiti in cui la cooperazione intergovernativa ha raggiunto i maggiori successi sono quelli della lotta contro l’immigrazione non desiderata: il Consiglio della UE ha adottato varie direttive su questioni come il traffico di esseri umani, la responsabilità dei trasportatori, il mutuo riconoscimento delle decisioni sulle espulsioni, l’assistenza in caso di transito nelle espulsioni per via aerea, le sanzioni contro il favoreggiamento dell’immigrazione illegale. L’immagine della “Fortezza Europa” si è pertanto impressa nel discorso pubblico e nell’immaginario collettivo, anche oltre la sua effettiva capacità di raggiungere gli obiettivi dichiarati, visto che l’immigrazione irregolare è tutt’altro che scomparsa.

Il secondo ambito delle politiche europee dell’immigrazione riguarda l’integrazione sociale degli immigrati e l’accesso alla cittadinanza. Nonostante limiti e ritardi già ricordati, alcuni progressi sono stati conseguiti, soprattutto mediante l’adattamento delle legislazioni nazionali. Tra le misure da ricordare vi è l’evoluzione liberale in tema di doppia cittadinanza, ossia riguardo alla possibilità di avere due cittadinanze diverse.

Al vertice di Tampere del 1999, inoltre, i governi hanno aderito al principio di riconoscere agli immigrati extra-comunitari diritti e doveri comparabili a quelli dei cittadini della UE, anche se l’attuazione di questi impegni è stata lenta e condizionata da molte difficoltà. Si può osservare altresì una certa convergenza negli approcci europei all’integrazione degli immigrati internazionali. A partire dall’Olanda, in precedenza portabandiera dell’approccio multiculturalista, una nuova domanda di “integrazione civica” è diventata un tratto comune delle politiche in materia, come mostra l’accordo del Consiglio Europeo sui «principi basilari comuni» del 2004 (Consiglio UE 2004). Agli immigrati neo-arrivati è ora richiesto di frequentare corsi specifici per imparare la lingua nazionale, di acquisire una conoscenza basilare di Costituzioni, leggi e vicende storiche dei Paesi di destinazione, di dichiarare esplicitamente di accettare le regole delle democrazie liberali, di mostrare lealtà nei confronti del Paese in cui chiedono di stabilirsi. Accordi specifici, come il “contratto d’integrazione” in Francia e in Italia, mirano a conferire una veste contrattuale a questo complesso di obblighi. Un altro aspetto dell’integrazione civica riguarda l’autosufficienza economica: gli Stati si propongono come compito principale di rendere gli immigrati più indipendenti dagli Stati stessi.

La convergenza delle politiche della UE per l’integrazione degli immigrati ha però un contrappunto più inclusivo: l’accordo del 2004 stabilisce l’impegno nei confronti dell’uguaglianza di trattamento e della non discriminazione, non solo per i cittadini dei Paesi membri della UE, ma anche per gli immigrati extracomunitari. In sintesi, l’integrazione civica e le misure anti-discriminatorie sono i due pilastri delle politiche della UE per l’integrazione degli immigrati adottate negli ultimi due decenni.

Un terzo ambito delle politiche europee dell’immigrazione resta deficitario: quello dell’asilo. Va ricordato che in realtà solo il 13% dei 68,5 milioni di rifugiati del mondo bussa alle porte dell’UE. Per di più i governi europei hanno deciso di bloccare gli arrivi con i controversi accordi con Paesi di transito come la Turchia, il Niger, la Libia.

Se il successo di questa politica si misura in termini di volume di arrivi, indubbiamente siffatta strategia per ora si è dimostrata efficace. D’altronde, se è stato così facile bloccare gli arrivi, è perché non era in atto nessuna invasione. Se i criteri si allargano alla protezione dei diritti umani, il bilancio diventa più fosco.

L’idea della flessibilità nell’attuazione dei principi di solidarietà e di tutela dei diritti umani sostenuta dai Paesi del gruppo di Visegrad (ma in modo più opaco anche da altri) solleva una grande questione: potrà sopravvivere un’Unione Europea rigidissima sulle quote latte ed elastica nell’ambito della tutela di diritti umani fondamentali? E se sopravvivrà, di che natura sarà una costruzione politica del genere?  

Docente di Sociologia delle migrazioni all’Università di Milano, Maurizio Ambrosini è docente presso l’Università di Nizza; dirige la rivista Mondi migranti e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni del Centro studi Medì (CSMedì) di Genova, del quale è direttore scientifico.  

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