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Una corsa a ostacoli tra abusi e illegalità

Una corsa a ostacoli tra abusi e illegalità

Tratto da: Adista Documenti n° 22 del 15/06/2019

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Sempre più a Sud. Per blindare i suoi confini la Fortezza Europa ha anche tentato di bloccare – o rispedire – i migranti prima della traversata del Sahara. Hot spot in Niger, tradizionale “porta del deserto”, e base per trafficanti di merce umana: non ha funzionato del tutto, ma alcune centinaia di migliaia di africani sono bloccati in uno stato di detenzione disumano, esposti a ogni abuso. Comincia a monte la violazione, l’annichilimento dei diritti umani dei migranti: non è solo la libera circolazione ad essere negata, ma anche il diritto base, i cui fondamenti sono nelle radici stesse del concetto di “umanità”, di cercare per sé e la propria famiglia una vita migliore.

Per chi ce la fa a partire arriva il deserto. Quando, nel 2008, in Come un uomo sulla terra, Andrea Segre e Dagmawi Yimer presentarono la vera storia di chi, come Dag, appunto, era sbarcato a Lampedusa, pochi credettero a questi orrori troppo forti. Oggi tutti sanno tutto, ma l’indifferenza – quando non il compiacimento – è la reazione prevalente. La prima tappa è già un inferno. Su camion stracolmi, senza viveri e acqua adeguati, è una prova di resistenza estrema: chi cade è abbandonato e muore, molti sono buttati giù. Le oasi sono disseminate di schiavi, che non sono sono riusciti a procurarsi abbastanza soldi.

I migranti sono al primo punto nella triste classifica della violazione dei diritti umani. Amnesty International, gli organismi ufficiali, le associazioni di solidarietà denunciano da anni una situazione in rapida accelerazione verso il baratro. Persone in una “terra di nessuno” dove non conta più nessuna legge e nessuna pietà. Di fatto, è negata loro anche l’identità umana, in uno sconvolgente riemergere in Europa di una visione neocolonialista, evidentemente mai adeguatamente elaborata. Sui migranti si infrange oggi la “civiltà” occidentale. Il concetto stesso di diritti umani è cancellato, anche l’habeas corpus si infrange tra le atrocità. Un arretramento impensabile fino a qualche anno fa. Le leggi, che ancora si muovono in quadro di garanzia, fondamento di Stati democratici, sono semplicemente ignorate o sentite come un intralcio, tanto che si ipotizza continuamente un loro stravolgimento anche formale.

Arrivo alle frontiere sud dei Paesi del Maghreb. Rischio di respingimenti anche collettivi e quindi (in teoria) vietatissimi. O arresti arbitrari e detenzione. In Libia in particolare, perché questo è il “tappo” programmato e costruito dalla UE e in particolare dal nostro Paese (e non da ora). Come già a Est, nella Turchia di Erdogan, milioni di euro sono stati elargiti per costruire i cosiddetti “Centri d’accoglienza”. L’orrore è in tutte le frontiere: dalla cintura est, al Marocco, a Lesbo. Chi arriva in Libia cade in una spirale micidiale: torture e abusi di ogni genere, anche riduzione in stato di schiavitù, per estorcere altro denaro, liberazione e spesso nuovo arresto, per ricominciare – e attesa della partenza, decisa dalle bande che si contendono il potere. Su quello che succede qui non c’è limite all’orrore, descritto con particolari atroci nei racconti e nei corpi dei sopravvissuti, nelle analisi dei medici e degli operatori sociali, che ormai dichiarano che gli abusi fisici riguardano quasi il 100% di chi arriva, in un’escalation continua, di cui abbiamo anche molte immagini. Nessuno è risparmiato, neanche le bambine, vittime di stupri ripetuti come le madri, o i neonati, per i quali c’è la morte per stenti in fetide celle sotterranee. Anche i responsabili dell’UNHCR hanno dichiarato di non aver mai visto niente di simile. La portavoce dell’UNHCR Carlotta Sami ha smentito anche l’altro tassello fondamentale della versione ufficiale: «Non esiste alcun centro di raccolta gestito dall’UNHCR. Chi viene riportato in Libia va nei centri di detenzione cui abbiamo accesso limitato». Le conseguenze sono chiare: «Il ritorno di persone da acque internazionali verso la Libia è contro il diritto internazionale. Non c’è alcun porto sicuro in Libia a oggi».

La narrazione ufficiale sulla Libia è invece cominciata con la presentazione di accordi tra il governo italiano e i “sindaci libici” ed è andata avanti sempre come se l’interlocutore fosse uno Stato con istituzioni stabili – quasi democratiche – con cui fare accordi. Punto fermo è l’esistenza di una “Guardia costiera libica” formalmente definita, che “salva” i migranti in difficoltà in mare dopo la partenza. La guerra civile ha smontato questa incredibile costruzione di menzogne ufficiali: la Libia è preda di una guerra fra gruppi di potere se non bande – e le nostre relazioni sono con una di queste –. E abbiamo dato e continuiamo a dare soldi, navi, formazione perché, in qualunque modo tengano lontani i migranti dalle nostre coste. Tutto, purché non arrivino.

Sul mare si completa il corto circuito del diritto. Non solo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU), ratificata nel 2004 da 44 Paesi aderenti al Consiglio d’Europa, tra cui 15 della UE; non solo la Costituzione italiana: sono carta straccia anche tutti i Codici che regolano la navigazione a livello internazionale (prima fra tutte la Convenzione ONU di Montego Bay, o UNCLOS, sul diritto del mare del 1982, e tutte le altre più specifiche, come la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare SOLAS e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR). L’imperativo che affonda le sue radici prima che nel diritto nell’essenza dell’essere umani, e cioè chi è in pericolo in mare si deve salvare, è criminalizzato e perseguito. Così quello che i porti sono per definizione aperti. La campagna diffamatoria e di odio nei confronti delle ONG che operano nel Mediterraneo ha stravolto i fatti: ormai è appurato (v. Avvenire) che i trafficanti che regolano i movimenti degli scafisti si confondono con chi ha il potere in Libia, che il governo italiano si coordina con loro, spesso comandando direttamente le loro navi e che le acque territoriali sono definite in modo strumentale. Le urla disperate, la minaccia di buttarsi in mare di chi, con l’inganno a volte, è preso in mare e riportato indietro dovrebbero bastare a far capire il crimine contro l’umanità che stiamo commettendo. ”Irricevibili”: irricevibili sono le direttive del nostro governo che vorrebbero imporre di infrangere tutte le leggi del mare, come dichiarano ogni volta i responsabili della Mare Jonio, la nave di soccorso italiana di Mediterranea: «La Libia non è un porto sicuro, è un Paese in guerra, vi sono gravissime violazioni dei diritti umani per cui è palese che si sta compiendo un crimine quando si riportano le persone in Libia e chiederlo a una nave battente la propria bandiera significa istigare a compiere un crimine. Queste inchieste in realtà si ritorceranno contro chi ordina queste cose e ne hanno timore. Noi non abbiamo nessun timore, invece».

Alla fine nonostante tutto molti arrivano. Ancora. Ma ad attenderli c’è la nuova Legge sulla sicurezza che, con diversi passaggi di dubbia costituzionalità e legittimità sta eliminando in modo mirato le esperienze positive di accoglienza: da un lato, riduce drasticamente, fino quasi ad azzerarla, la protezione umanitaria e getta così in strada e trasforma in “illegali” persone inserite in processi di integrazione avviati; dall’altro elimina, oltre il mero mangiare e dormire, ogni forma di aiuto (lezioni di italiano, assistenza psicologica e per la formazione, ecc.). Una vera persecuzione, che fa anche pagare a migliaia di giovani operatori “italiani” il prezzo della disoccupazione. Molti giuristi democratici sostengono che tutta questa impalcatura verrà smontata pezzo per pezzo in tribunale. Intanto però sta creando disagi e sofferenze infinite e soprattutto contribuisce ad avvelenare ulteriormente il clima della convivenza sociale.

Perché le leggi ci aiuteranno se le faremo rispettare, ma la battaglia a questo punto di degrado delle coscienze è soprattutto culturale. 

Cristina Mattiello è insegnante e giornalista, americanista, autrice de Le Chiese nere. Dalla religione degli schiavi alla Teologia della Liberazione (Claudiana, 1993) e Le frontiere della solidarietà: Chiesa cattolica statunitense e New Deal (Bulzoni, 1994).   

Raffaello Fabio Ducceschi, Corsa a ostacoli 110 hs e 400 hs (acrilico su tela, 2010); foto [ritagliata] di Raffaello Fabio Ducceschi tratta da wikimedia commons, licenza Creative Commonshttp://www.raffaduc.com/?

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