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Un’alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale

Un’alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale

Tratto da: Adista Documenti n° 23 del 22/06/2019

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Conversione ecologica, debito, finanza

Conversione ecologica e produttiva. In mancanza di un radicale cambio di rotta, i cambiamenti climatici diventeranno irreversibili nel giro di uno o due decenni al massimo. La sola risposta a questa minaccia è costituita da una conversione ecologica della produzione, degli stili di vita e del consumo che coinvolga i settori portanti dell’economia: energia, agricoltura, allevamento, alimentazione, edilizia, mobilità, assetto dei territori, gestione delle risorse, ricerca e istruzione. La continuità tra l’essere umano, il vivente e il suolo – fatti tutti della stessa materia – impone di ridurre all’essenziale il consumo di risorse, non per renderci tutti più poveri ma perché la vita di tutti possa essere più ricca di relazioni ed esperienze. Tutto ciò che eccede le necessità di una vita dignitosa è sottratto ad altri esseri, umani e animali, e alle generazioni future: li fa vivere peggio, quando non impedisce o impedirà loro persino di vivere.

Una nuova cultura ambientale da diffondere. La conversione ecologica è il processo teorico e pratico in cui la Laudato si’ individua la via obbligata per la salvezza dell’umanità. I suoi contorni sono stati delineati da alcuni teorici dell’ecologia integrale, da molti movimenti popolari con milioni di membri e da diverse culture indigene, oggi rivalutate, cui l’enciclica ha attinto. Le economie possono essere molto diverse da quella neoliberista oggi predominante: economia civile, bioeconomia, economia sociale-solidale, economia di liberazione. Anche l’economia del distretto che è succeduta al fordismo, incapace di far fronte ai grandi flussi planetari di merci, informazioni, finanza, migranti e mutamenti climatici, può trovare nell’ambientalismo una prospettiva percorribile per non soccombere di fronte a una competitività sempre più feroce e senza scopo. Questa pluralità di sguardi e pratiche deve essere considerata una ricchezza da mettere in circolo e potenziare con politiche e finanziamenti.

Oltre la green economy. Conversione ecologica e green economy non sono la stessa cosa, anche se per alcuni aspetti possono coincidere: quest’ultima risponde a criteri di convenienza economica dentro gli assetti di potere e le diseguaglianze vigenti, mentre la conversione ecologica investe tutti gli ambiti dell’esistenza umana, del vivente e del suolo, riconoscendo a ciascun essere della Terra dei diritti. Il fallimento dei meccanismi di compravendita dei diritti di emissione – contemplati nel Protocollo di Kyoto – sta a testimoniare l’incoerenza e il danno procurato dalla mercificazione delle risorse naturali. Necessità del conflitto e della democrazia partecipata. La conversione ecologica si basa sia sul conflitto in difesa dei beni comuni sia sulla partecipazione popolare, senza la quale non è possibile realizzare la svolta radicale necessaria a vincere l’inerzia dei governi del mondo, impermeabili a ogni denuncia dell’imminente catastrofe climatica. Per questo la conversione comporta una democratizzazione profonda della società che, senza delegittimare gli istituti della democrazia rappresentativa, li affianchi con nuove forme di democrazia partecipata, anche e soprattutto nel governo delle imprese – a partire da quelle in crisi – con il coinvolgimento di maestranze, sindacati, management, governi locali, associazioni civiche e ambientali. Al contrario, però, in tutto il mondo lo spazio civico, dove la cittadinanza attiva e la partecipazione possono realizzarsi, si sta restringendo, sotto i colpi di leggi che attaccano il diritto di riunione, manifestazione, organizzazione. Difendere lo spazio civico è una necessità primaria.

Sostituire l’agricoltura industriale con un’agricoltura di comunità. La conversione ecologica trova un suo modello, seppure per ora in contesti limitati, nel conflitto in corso nel mondo agricolo. Da un lato c’è un’agricoltura industriale fondata su una chimica di origine bellica che distrugge i suoli e avvelena, con fertilizzanti, pesticidi di sintesi e Ogm, acque, ambiente, cibo ed esseri umani che se ne nutrono, e che mette l’alimentazione in mano alla finanza speculativa, generando enormi sprechi in un mondo dove un miliardo di esseri umani soffre la fame. Dall’altro si profila, sempre più solida, un’agricoltura ecologica, multifunzionale, di prossimità, fatta da imprese di piccola taglia che, facendo ampio ricorso ai risultati della ricerca scientifica in campo agronomico, recupera semenze, saperi e culture tradizionali obliterate dall’industrializzazione. Un’attività che spesso si mette in rapporto diretto con l’utenza, che garantisce uno sbocco certo e remunerativo ai suoi prodotti esautorando il mercato, superando la concezione del cibo come merce, innescando un processo di graduale superamento dei ruoli rigidi di produzione e consumo e, talvolta, coinvolgendo i destinatari dei suoi prodotti nel lavoro nei campi. Così una comunità può recuperare un rapporto diretto con la terra, secondo i modelli detti community farming, Community Supported Agricolture (CSA), Distretti di Economia Solidale (DES), Gruppi di acquisto solidale (GAS).

Espandere l’economia solidale di comunità. Il modello GAS, DES, CSA può essere esteso, con le dovute specificità, in altri ambiti per ora di nicchia: in campo energetico (fonti rinnovabili ed efficienza), nell’ecoedilizia e nel cohousing, nella mobilità condivisa e flessibile, nel recupero delle risorse, nella gestione del territorio in campo educativo e persino – grazie alla tecnologia di fabbricazione personalizzata o di piccola serie introdotta con la stampante in 3D – in alcuni ambiti della produzione manifatturiera: cioè in tutti i settori portanti della conversione ecologica. Certamente questo modello non potrà coprire tutto l’arco dei processi produttivi; le politiche industriali e il commercio a livello nazionale e internazionale continueranno ad avere un ruolo insostituibile, ma dovranno fare perno su comunità che nel rapporto con il territorio, le sue specificità, le sue tradizioni e le sue risorse, possono recuperare una propria ragion d’essere e valorizzare i rapporti diretti, anche faccia a faccia, tra le persone.

Sostenere la necessaria dialettica tra locale e globale. La conversione ecologica non può che procedere sulle gambe dell’iniziativa e della mobilitazione locale, in un rapporto dialettico – conflittuale e partecipativo – con le istituzioni del governo locale; ma deve essere orientata da visione e prospettiva planetarie, senza le quali rischia di chiudersi in un localismo competitivo che invece di promuovere la solidarietà, mette ogni comunità contro tutte le altre. Ma a motivare iniziativa e mobilitazione non possono essere solo considerazioni di carattere generale; serve l’aderenza a un bisogno di migliorare l’organizzazione della vita quotidiana che sia dettato non solo dagli interessi, ma anche da quel desiderio di libertà, di bellezza, di affetti che la civiltà della competizione universale sta soffocando.

Sottrarsi al cappio del debito. Progetti e iniziative locali di riconversione possono svilupparsi solo se finanziati con piani di investimento di dimensioni generali che revochino le politiche di austerità che li soffocano, rilancino la spesa pubblica la cui riduzione toglie risorse alla vita associata e allentino i vincoli del debito pubblico, vera arma di distruzione di massa con cui la finanza globale tiene in pugno le politiche pubbliche di tutti gli Stati. Anche la Laudato si’ afferma l’ineludibilità di questo compito, indicando il potere della finanza mondiale e il suo peso sulla vita di ciascuno come una “religione” che calpesta i diritti del creato, le ragioni del vivente e della natura.

Avviare un auditing sul debito. In molti Paesi sono state avviate indagini per individuare la parte illegittima o odiosa del debito pubblico, premessa ineludibile per ripudiarla e rendere sostenibile la vita economica. Sulla formazione del debito pubblico dell’Italia hanno pesato soprattutto l’evasione fiscale, le controriforme fiscali, gli interessi pagati alla speculazione internazionale e la corruzione, fonte a sua volta di sprechi a spese dell’erario. La lotta per sottrarsi al cappio del debito va sviluppata con la più ampia mobilitazione. Per questo è necessario avviare un auditing a tutti i livelli dell’ordinamento statuale. Sosteniamo in questo senso la proposta di una Conferenza europea sul Debito.

Contro la predazione della finanza. Occorre contrastare e rimuovere le forme speculative e di rendita che impediscono alla moneta e alla finanza di svolgere il proprio ruolo di mezzo di scambio e di sostegno alle attività economiche e sociali (pubbliche e private) nell’interesse generale. È necessario valorizzare le forme di credito e di risparmio popolare, cooperativo, etico e mutualistico, e restituire alle comunità la titolarità di politiche autonomamente decise, anche con il ricorso a monete locali non convertibili. Occorre inoltre mettere al bando i paradisi fiscali, anche con misure che colpiscano le imprese e i cittadini che vi fanno ricorso; vietare l’intervento delle agenzie di rating sulle scelte politiche e degli Stati e disporre una forte vigilanza sui loro conflitti d’interessi e sulle turbative d’asta (come previsto dalle leggi correnti). Occorre escludere gli operatori borsistici dalle attività che riguardano beni e servizi strategici per la vita delle persone e delle comunità (casa, acqua, energia, alimentazione, salute).

Fermare le politiche economiche di austerity. Le politiche fiscali restrittive dell’UE, in particolare il Fiscal compact e il Patto di stabilità, devono essere abbandonate perché responsabili dell’aumento della povertà e dell’esclusione sociale in tutta Europa. L’obiettivo del “pareggio strutturale” per i bilanci pubblici deve essere sostituito da una strategia coordinata che permetta agli Stati membri di attuare le politiche fiscali necessarie a garantire i diritti fondamentali.

Abbandonare il Prodotto interno lordo (PIL) come indicatore dello sviluppo. Il dibattito economico e il confronto politico in Italia e nel mondo continuano a definire e misurare i propri obiettivi in base alla crescita del PIL (Prodotto interno lordo): un indicatore fuorviante, perché misura esclusivamente l’andamento delle vendite e il costo dei servizi pubblici, indipendentemente dai benefici che possono portare alla popolazione, e includendo anche il valore monetario di interventi, produzioni e spese che si traducono spesso in un peggioramento della salute, dell’ambiente e della convivenza. Il PIL è stato fatto oggetto di molte critiche ma non è mai stato abbandonato. È necessario introdurre nel dibattito pubblico criteri di valutazione del bene comune che non siano più legati a misurazioni solo monetarie.

Il vivente

«Prendersi cura di tutto ciò che esiste». «L’ecologia integrale», si legge nell’enciclica, «richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’umano. San Francesco entrava in comunicazione con tutto il creato, e predicava persino ai fiori e li invitava a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione. La sua reazione era molto più che un apprezzamento intellettuale o un calcolo economico, perché per lui qualsiasi creatura era una sorella, unita a lui con vincoli di affetto. Per questo si sentiva chiamato a prendersi cura di tutto ciò che esiste». Riconoscere la sorellanza della natura e accogliere gli animali come creature capaci di sensibilità e intelligenza ha innumerevoli conseguenze sul nostro modo di percepire il mondo e sulle nostre scelte. Portandoci a superare il primato del logos, dell’apprezzamento intellettuale e del calcolo economico, l’ecologia integrale ci collega al cosmo, dove l’umano è parte di «tutto ciò che esiste».

Superare l’antropocentrismo. Pur istituendo una continuità con l’animale nella sfera evolutiva, biologica e genetica, il pensiero occidentale moderno ha tracciato un confine che separa culturalmente e moralmente gli umani dai non umani. Siamo educati a pensare in termini dicotomici il rapporto tra natura e cultura e tra animalità e umanità, interiorizzando una dissociazione fra soggetti umani e oggetti animali, con questo dimenticando che noi stessi siamo Natura.

«L’antropocentrismo moderno», scrive papa Francesco, «paradossalmente ha finito per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà, perché questo essere umano non sente più la natura né come norma valida, né come vivente rifugio». Sono parole essenziali e rivoluzionarie: ponendo la ragione tecnica al di sopra della realtà, un antropocentrismo proiettato verso la logica del profitto e il dominio e la derealizzazione della natura ha condotto alle attuali devastazioni ambientali, allo sterminio di molte specie, al più brutale sfruttamento-annientamento del mondo animale, fino all’invenzione degli allevamenti industriali, vere e proprie fabbriche di sterminio riservate ai non umani.

Riconoscere il dolore del vivente. Attraverso l’uso di categorie che educano a considerare l’animale privo di pensiero e sensibilità, la modernità ci ha resi ciechi al dolore, alla soppressione, al consumo e allo smaltimento di esseri viventi prodotti e processati industrialmente come cose. Ma se non siamo capaci di riconoscere e di lasciarci coinvolgere dal dolore del vivente, come possiamo rispettare gli altri esseri umani? L’asservimento-bestializzazione degli animali ha prodotto i modelli dell’asservimento-bestializzazione di tutti gli “inferiori” (donne, stranieri, “selvaggi”: altri, nella gerarchizzazione istituita dal dominio patriarcale), alimentando e giustificando il razzismo, il sessismo e lo schiavismo che nascono dalla predazione del lavoro, del sesso, del piacere, della cura. A questa consapevolezza devono corrispondere azioni sul piano educativo, legislativo, dei consumi e degli stili di vita.

Le conseguenze dell’allevamento intensivo per il clima. L'allevamento di animali destinati alla macellazione è responsabile almeno del 15% di tutte le emissioni di gas a effetto serra di origine antropica: le cinque maggiori compagnie globali che producono carne e latticini rilasciano nell’atmosfera, ogni anno, più CO2 di quella diffusa da tre colossi petroliferi come Eni, Shell e BP. Poiché il consumo medio di carne a persona è quasi raddoppiato negli ultimi 50 anni, gli animali da allevamento rappresentano ormai il 60% dei mammiferi terrestri. Le ingenti quantità di risorse vegetali necessarie per i mangimi sono prodotte in monoculture che comportano l’erosione di terreni agricoli e l’abbattimento di grandi aree di foresta, risultando tra le prime cause di perdita di biodiversità. La mega-industria della macellazione è pesantemente coinvolta nel land grabbing e nell’inquinamento legato ai trasporti: per esempio, società cinesi rilevano vaste estensioni di terreni in Africa per coltivare il foraggio che poi trasportano negli allevamenti in Cina. Per produrre un chilo di carne servono dai 15 ai 20.000 litri di acqua, 20 volte più che per un chilo di cereali o verdure. Quasi un terzo del consumo d'acqua globale è dovuto all'allevamento di animali da macello. Un’inversione drastica dei regimi alimentari, con la riduzione o l’azzeramento del consumo di carne, è una delle condizioni essenziali per realizzare un contenimento dei cambiamenti climatici.

Le conseguenze dell’allevamento intensivo per gli esseri umani. Gli allevamenti su vasta scala sottraggono cibo di origine vegetale agli esseri umani più esposti alla fame, allo scopo di alimentare – e spesso sovralimentare – di carne la popolazione più ricca. Questa fascia di consumatori, prevalentemente occidentali, sviluppa antibioticoresistenza e una maggiore incidenza di malattie metaboliche e degenerative a causa dell’utilizzo intensivo di farmaci somministrati agli animali per attenuare le infezioni causate dall’immobilità forzata e dal sovraffollamento nelle gabbie, e di ormoni per aumentare il peso della carne da macellare. Il crudele e dannoso sistema degli allevamenti intensivi, anche ittici, paradigma della devastazione inflitta al pianeta da un modello di sfruttamento antropocentrico e predatorio, deve essere normato in funzione del rispetto degli animali, dei consumatori e dell’ecosistema, e non può ricevere finanziamenti comunitari.

Tagliare i sussidi all’agricoltura e agli allevamenti intensivi e vietare i trasporti extra UE di animali vivi per la macellazione. Negli ultimi decenni, i fondi pubblici assegnati in modo distorto e dannoso hanno fatto crescere le grandi aziende agricole di stampo intensivo e industriale, contribuendo di fatto alla scomparsa delle realtà più piccole e più sostenibili. Nel 2021 l’Unione europea applicherà la nuova “Politica Agricola Comune” (PAC). Chiediamo all’Unione europea e al governo italiano di tagliare i sussidi alle aziende e agli allevamenti intensivi e sostenere aziende agricole che producono con metodi ecologici. Chiediamo di vietare l'esportazione degli animali vivi verso i Paesi extra UE, che alle sofferenze del trasporto a lunga distanza aggiunge la brutalità di una morte inflitta con metodi considerati illegali nell’Unione europea.

Promuovere il rispetto giuridico del vivente e i diritti della natura. Molte società estendono la nozione di “persona” al di là degli esseri umani: animali, alberi, piante, colline, laghi e fiumi sono persone, e come tali hanno diritti. Paesi come la Bolivia e l’Ecuador hanno inserito i diritti della Terra (Pachamama) nelle proprie Costituzioni. Anche in Europa è necessario pensare la tutela giuridica delle innumerevoli e multiformi espressioni della natura, a cominciare dagli animali non umani, in base al loro valore intrinseco (bellezza, rarità, ricchezza infinita di forme) e alla loro soggettività (senzienza, intelligenza, emozioni/affetti). Occorrono norme vincolanti sulla protezione delle specie, che garantiscano non solo la conservazione fisica ma anche la trasmissione culturale e sociale tra individui, messa a rischio dove l’habitat è costantemente disturbato ed eroso. Occorrono norme rigide sulle condizioni di allevamento, trasporto e vendita degli animali di qualsiasi specie, accompagnate da un’attività educativa che ne restringa progressivamente l’ambito. Esiste una rigorosa ricerca scientifica senza utilizzo di animali che va incoraggiata e finanziata.

Tutelare la libertà e la sapienza dei popoli indigeni. Il paradigma del “buen vivir” dei popoli nativi, detentori di un rapporto con il pianeta e i suoi abitanti oggi pressoché estirpato dalla vocazione predatoria della cultura occidentale, è stato rivalutato da decenni di lotte e da nuove esperienze politiche, sociali, culturali. È necessario ascoltare e difendere chi, nel mondo, segue un percorso di vita capace di abbracciare il vivente e la casa comune, articolando relazioni non basate sullo sfruttamento e spesso pagando con la propria vita l’opposizione al potere economico globale. Occorre riconoscere il ruolo dei popoli indigeni nel proteggere ambiente e biodiversità, nella lotta al cambiamento climatico, nell’assunzione dei diritti della natura. Occorre sostenere le lotte dei popoli indigeni contro le istituzioni finanziarie e i progetti di sviluppo che non rispettano l’ambiente in cui essi vivono, né il loro diritto all’autodeterminazione, che si esercita con il consenso libero, previo e informato su qualsiasi progetto possa avere un impatto su loro diritti umani e territoriali, sulle loro terre o le loro risorse.

Istituire un tribunale internazionale per i Diritti della Natura. È necessario introdurre un’articolazione di diritto pubblico internazionale che, sulla base di una Dichiarazione universale dei Diritti della Natura, preveda il diritto degli ecosistemi di esistere e il dovere dell’umanità di rispettarne i cicli vitali. Sosteniamo l’istituzione di un Tribunale per i Diritti della Natura al fine di introdurre e far rispettare nuovi concetti giuridici inerenti il riconoscimento dei diritti di animali, foreste, specie, distretti ambientali. Il Tribunale potrà condannare Stati e imprese per crimini ambientali, in particolare quelli connessi ai cambiamenti climatici.

Istituire un’Agorà degli abitanti della Terra. Gli abitanti della Terra sono più di sette miliardi e mezzo, e ad essi appartiene di vivere insieme e salvaguardare la vita della casa comune, il primato dell’uguaglianza e il rispetto dei diritti e delle responsabilità verso il mondo umano e non umano. Poiché sta agli esseri umani l’assunzione di responsabilità verso la Terra, che un’espansione e uno sfruttamento continui minacciano di devastare senza possibilità di ritorno, appoggiamo la proposta di costruire una sfera pubblica sovrastatale intesa come sistema di limiti e vincoli ai poteri altrimenti incontrollati della politica e dei mercati. Un demanio planetario di garanzie sovranazionali in materia di ambiente, salute, lavoro, per la tutela dell’abitabilità del pianeta.

Fermare il consumo di suolo. L’estrattivismo, la coltivazione intensiva, la cementificazione e il cambiamento climatico alterano ecosistemi e paesaggi, territori e comunità, ridisegnano le geografie del potere e dell’esclusione, ridefiniscono le relazioni tra i popoli e tra l’umano e la natura. Per questo è importante fermare il consumo di suolo e confinare le nuove costruzioni e infrastrutture allo spazio già edificato.

Preservare il paesaggio. La bellezza del paesaggio agrario storico italiano, risultato di un secolare processo produttivo virtuoso, è il contrario dello scenario determinato dall’agricoltura industrializzata, monoculturale e intensiva, che rende monotono il territorio e impoverisce il suolo. La devastazione dello scenario rurale deve essere fermata e risanata con percorsi di rigenerazione architettonica rispettosa dell’armonia, consapevole della necessità di luoghi d’incontro con la natura.

Il diritto alla città. La crescita edilizia metropolitana disordinata e invasiva, costituita da zone per lo più monofunzionali, è incapace di generare ricchezza di vita e di immagine urbana. I recenti movimenti per il diritto alla città, nati in Brasile e diffusi in tutto il mondo, chiedono il riconoscimento giuridico delle funzioni e degli spazi urbani, allo scopo di ordinare il pieno sviluppo delle funzioni sociali della città e garantire il benessere dei suoi abitanti. Allo stesso modo, papa Francesco ricorda «come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro». La città ha un corpo architettonico e al tempo stesso può rivelare un’anima civica orientata da valori collettivi: capitale civico, bene pubblico, funzioni sociali della proprietà urbana. La proprietà privata, in quest’ottica, deve essere ripensata in chiave di compatibilità con l’interesse generale.  

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