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30 anni della Legge 185/90: “Finché c’è guerra c’è speranza”

30 anni della Legge 185/90: “Finché c’è guerra c’è speranza”

Quando fu approvata la legge 185 nel 1990, essa rappresentava un traguardo importante nel tentativo di realizzare un quadro giuridico omogeneo relativo alle esportazioni dei materiali di armamento. Inoltre essa si collocò all’avanguardia sul piano internazionale, divenendo un punto di riferimento importante per le successive norme che sia a livello europeo (Codice di Condotta, 1998; la Posizione Comune 2008/944/PESC), sia a livello mondiale (ATT, 2014) sono intervenute in tale ambito.

Nel corso degli anni la legge 185 è stata modificata, anche in relazione ad intese in ambito comunitario, consentendo non di rado delle esportazioni a Paesi che, secondo lo spirito della legge, non sarebbero dovuti comparire nella lista dei nostri clienti.

L’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, in occasione del trentennale dell’approvazione della legge (9 luglio) ha pubblicato un rapporto, incentrato sulle autorizzazioni alle esportazioni concesse dal Governo italiano, che ricostruisce sinteticamente non solo questo trentennio, ma anche il periodo precedente che ha visto una crescente mobilitazione della società civile che ha voluto questa normativa.

A seguito di un’azione diffusa di diversi soggetti sociali, si è giunti nel luglio 1990 alla sua approvazione dopo un iter durato circa un quindicennio, che ha visto l’impegno di riviste missionarie come Missione Oggi e Nigrizia, la campagna nazionale “Contro i mercanti di morte” (animata dalle Acli e da gruppi come Mani Tese, Missione Oggi, Mlal, Pax Christi e Nigrizia), l’attività in ambito sindacale (animata dal segretario nazionale della Federazione Lavoratori Metalmeccanici, Alberto Tridente) e di tanti altri.

Dall’anno della sua approvazione sono passati tre decenni, che hanno visto le esportazioni orientarsi diversamente dapprima prevalentemente verso i paesi dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea, poi con una crescita continua verso gli altri paesi, in particolare verso quelli dell’area mediorientale e nordafricana. Tale flusso è certamente collegato alla permanente instabilità della regione e, in tempi più recenti, ai conflitti in Siria, nello Yemen e in Libia, che hanno agito da catalizzatori per un’elevata richiesta di armi e munizioni per tutti i paesi dell’area, direttamente o indirettamente coinvolti.

Dopo un quindicennio di esportazioni a livelli mediamente costanti (tra 1 e 2 miliardi di euro annui), con l’avvio della guerra permanente al Terrore e in particolare dal 2006 inizia la fase ascendente, con un export medio annuo di 5,5 miliardi di euro, con un picco di oltre 14 miliardi di euro nel 2016 a seguito della fornitura al Kuwait (impegnato nella guerra nello Yemen) di 28 aerei da difesa multiruolo di nuova generazione “Eurofighter Typhoon”, realizzati in Italia.

Inoltre, attraverso il restringimento dei criteri relativi alle violazioni dei diritti umani (solo se denunciati da alcuni organismi internazionali e solo se “gravi”) e all’utilizzo degli accordi di cooperazione militare che esonera i paesi firmatari dall’applicazione dei divieti della 185, oltre 80 governi nel mondo ricevono nostri materiali d’armamento, compresi regimi autoritari, dittature e paesi in guerra.

Di fatto, a trenta anni dalla sua approvazione della legge, essa appare in parte aggirata (come fece a suo tempo notare in Parlamento lo stesso Sergio Mattarella durante la seduta n° 619 del 3/5/2005) o inapplicata, come anche nel caso della Relazione governativa al Parlamento, divenuta negli anni sempre meno trasparente, nonostante le centinaia di pagine che la compongono. I dati ci dicono addirittura che le esportazioni di armi e munizioni dell’ultimo decennio (oltre 996,61 miliardi di euro) sono enormemente superiori a quanto esportato dal 1991 sino al 2010 (37,68 miliardi di euro).

Fonte: Relazione al Parlamento ai sensi dell’art. 5 della legge 9 luglio 1990, n. 185 presentata nel 2020

È interessante notare che è aumentato anche il numero di nostri clienti: da una media iniziale di una cinquantina siamo arrivati a oltre ottanta: vendiamo armi e munizioni a quasi metà dei paesi del mondo. Tra questi, ad esempio, proprio nel 2019 troviamo al primo posto l’Egitto, dove la dittatura di al Sisi sta attuando da anni una feroce repressione interna, regime noto anche per la tragica vicenda di Giulio Regeni e per la recente incarcerazione di Patrick Zaky. Al secondo posto troviamo il Turkmenistan, altro regime segnalato per le ripetute violazioni dei diritti umani. Altro nostro cliente negli ultimi anni è stata l’Arabia Saudita, a cui in particolare abbiamo vendute bombe d’aereo del tipo MK, usate anche contro obiettivi civili nella guerra nello Yemen.

È anche opportuno notare che come il flusso di queste esportazioni non sia stato influenzato dall’alternarsi dei diversi governi, come mette in rilievo il grafico realizzato da Giorgio Beretta, analista di OPAL.

Insomma, sembra che la politica commerciale del settore sia assolutamente autonoma rispetto non solo alle scelte politiche e alle diverse sensibilità delle forze politiche che si sono insediate nel corso degli anni alla guida del paese, ma anche rispetto alle necessità di politica internazionale, che esigerebbero coerentemente di non vendere armi a paesi che, come l’Egitto, sostengono militarmente gli avversari (Haftar) di governi riconosciuti (al-Sarraj) dall’Italia, la quale per di più vorrebbe coordinare la missione IRINI di controllo dell’applicazione dell’embargo di armi rispetto al conflitto libico. Insomma, sembra che valga ancora pienamente il titolo del coraggioso film di Alberto Sordi “Finché c’è guerra c’è speranza” (di fare affari).


* Immagine di Moyan Brenn, tratta dal sito Flickr, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata

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