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Sulla visita di papa Francesco in Iraq

Sulla visita di papa Francesco in Iraq

Papa Francesco è stato in Iraq a nome di tutte le fedi. Il mondo cattolico italiano esca dalla sua passività e si impegni concretamente per la pace senza usare solo parole generiche e poco credibili.


Ci siamo accorti tardi che papa Francesco ha fatto il pellegrinaggio in Iraq contro tutti che lo sconsigliavano con argomenti umanamente ragionevoli. Ha invece avuto pienamente ragione. Questo viaggio è stato in diretta continuità con il documento di Abu Dhabi del febbraio 2019 “Sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” e con l’enciclica “Fratelli tutti” dello scorso ottobre. Questi tre interventi, in questo momento difficile per l’intera umanità, sono un messaggio universale per tutti gli uomini, per tutti i popoli. Il pontificato di Francesco si eleva in questo modo molto al di sopra delle ostilità di una parte del mondo ecclesiastico e delle vicende vaticane che cercano di ostacolarlo con logiche ispirate alla vecchia cristianità e alla pesantezza del diritto canonico.

Francesco, dopo aver chiesto perdono, a nome dei peccati dell’uomo, “al cielo e ai fratelli per tante distruzioni e crudeltà”, in quella terra si è presentato come pellegrino in nome di Cristo “principe della Pace” ed ha alzato lo sguardo sullo stato del mondo. Le sue parole sono state sferzanti: basta con le armi e con chi le produce e le distribuisce sugli scenari di guerra. Si dia invece “voce al grido degli oppressi e degli scartati perché nel pianeta troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità”. La nonviolenza attiva di Francesco si è proposta avendo bene in mente tutta la storia recente dei popoli del Medioriente, sia l’azione dell’estremismo del Daesh, sia quella attuale delle potenze ad esso esterne, sia quella arrogante di Israele sia quella dell’invasione USA del 2003 (fatta per “esportare la democrazia”!) contro la quale si pronunciò l’opinione pubblica mondiale e Giovanni Paolo II e che i media hanno ora comodamente dimenticato parlando del suo viaggio.

Francesco ha usato della sua autorità spirituale per proporre l’unica soluzione realistica e veramente politica, ispirata alle religioni del Libro, quella della fratellanza tra ebrei ed arabi, tra sunniti e sciiti, tra turchi e curdi e l’uso delle risorse di cui quei territori sono ricchi per le necessità dei popoli. Ha ricordato il profeta Isaia dove dice “i popoli spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci” ma – ha soggiunto – è “una profezia non realizzata perché spade e lance sono diventate missili e bombe”. Per creare fratellanza Francesco è andato a Najaf per incontrare Al-Sistani, è stata una apertura di comunicazione con gli sciiti, la seconda grande tradizione islamica. Questo incontro è stato giudicato positivamente da Ali Khamenei, l’altro grande ayatollah.

Il pellegrinaggio ha avuto naturalmente radici bibliche e teologiche, molti sono stati i simboli, i ricordi. L’Iraq si trova alle sorgenti della spiritualità, è “culla della civiltà strettamente legata, attraverso il patriarca Abramo e numerosi profeti, alla storia della salvezza e alle grandi tradizioni religiose dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam”. A Ur dei Caldei nell’incontro interreligioso, al quale non erano presenti i rappresentanti dell’ebraismo, Francesco si è fatto portavoce delle tre religioni e ha fatto un “discorso alle stelle”, simile a quello famoso di papa Giovanni alla luna nel primo giorno del Concilio. Egli ha detto: “Questo luogo benedetto ci riporta alle origini, alle sorgenti dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni. Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui egli sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio. Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle (cfr Gen 15,5). In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e con le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra”.

Ora, anche nel nostro paese, bisognerà riflettere su questo viaggio, sulla situazione in Iraq e nel Medioriente. Tutti dobbiamo sentirci un po’ corresponsabili della situazione in un mondo globalizzato nel fare (o nel tacere). C’è chi si è già attivato da tanti anni. Pax Christi, fra tutti, si è impegnata in modo continuo in contatti, incontri, aiuti e denunce, facendosi carico delle situazioni di estrema difficoltà dei cristiani in paesi dove la loro presenza è di origine apostolica e che Francesco ha cercato di fortemente rassicurare nel suo pellegrinaggio, invitandoli a rimanere. “Un Ponte Per...”, dalla prima guerra del golfo nel 1991, è stato ed è presente con interventi di assistenza, di formazione, di presidi sanitari, di aiuto ai rifugiati. A fronte di queste attive e preziose minoranze ricordiamo con amarezza l’atteggiamento di quanti stettero zitti, non capirono o addirittura condivisero l’intervento del 2003. Dopo i fatti di Nassiriya del novembre, celebrando i funerali dei militari italiani là morti, il card. Ruini disse che erano caduti per “compiere una grande e nobile missione [...] avendo accettato di rischiare la vita per servire la nostra nazione e per portare nel mondo la pace”. Gli sfortunati militari e le loro famiglie si trovarono così ad essere vittime di una seconda violenza, quella delle parole del cardinale.

Dopo il viaggio del papa è necessaria una svolta. Il mondo cattolico italiano deve uscire dalla passività, dall’osservare i fatti solo sui media, da preghiere generalgeneriche che non possono salvare la coscienza. Ci vuole un nuovo protagonismo, anche politico, per azioni concrete per la pace in Iraq, nel Medioriente e su tutto lo scenario internazionale dove il riarmo, anche nucleare, continua galoppante e gli antagonismi tra potenze piccole e grandi continuano a crescere con la partecipazione subalterna del nostro paese.

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