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I vescovi italiani tra adattamento e incertezza

I vescovi italiani tra adattamento e incertezza

Tratto da: Adista Documenti n° 23 del 01/07/2023

Qui l'introduzione a questo articolo. 

Una dottrina asociale acristiana

(...) Non sorprende che venga ignorata, rifiutata, capovolta in più forme l’intera Dottrina sociale della Chiesa: dalla Rerum novarum alla Fratelli tutti. Praticamente tutti gli aspetti fondamentali che la caratterizzano vengono rovesciati: non personalismo ma individualismo (egoismo individuale), non comunitarismo ma nazionalitarismo (egoismo nazionale). Il tema centrale dell’insegnamento sociale della Chiesa e cioè la solidarietà (si pensi solo alla Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II), viene rimosso, se non sbeffeggiato.E più in generale un senso di irrisione sarcastica viene sottilmente evocato davanti a ogni tema forte della dottrina sociale della Chiesa. E tali temi forti vengono così bollati, in modo caricaturale, come “cattocomunismo”. Si può stare certi: tutte le volte che si grida al cattocomunismo – a meno che non si tratti di polemica politica spicciola verso cattolici che militano nella sinistra – si tratta di aspetti fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa. Che dunque viene accantonata in radice: sostituita da un radicalismo asociale e acristiano.

Il cattolicesimo come Religione civile

Seguendo una tradizione che risale all’Action Française, si persegue un cattolicesimo-senza-cristianesimo, emblematizzato nel trinomio Dio-Patria-Famiglia (...).

(...) Per la prospettiva della Religione civile attuale vanno bene la visione pubblica del Tempio, il potere alla casta sacerdotale, in grado di mediare, in una complessiva visione disincantata dell’esistenza. Bene il crocifisso nelle scuole o nelle aule di tribunale: non come simbolo religioso cristiano, ma come simbolo identitario cattolico dello Stato: cattolicesimosenza-cristianesimo. Si vuole, così, una liturgia non come “divini misteri” ma, in qualche modo, deliturgizzata, ridotta a ritualità identitaria (in forme rubricistiche confessionali) per lo Stato. Per i caduti in guerra ci vuole una Messa di funerale con rito cattolico (rimuovendo, ovviamente, la problematica cristiana di condanna della guerra). Così per ogni funerale di Stato (anche se non è più in vigore l’art. 1 dello Statuto albertino, che faceva del cattolicesimo la religione ufficiale). Questa Religione civile è sostenuta dal ben noto fenomeno degli “atei devoti”. E questo ateismo devoto, questo cattolicesimosenza-cristianesimo è un neo-sadduceismo: ulteriore processo di erosione del cristianesimo, di fuoriuscita dal cristianesimo: di scristianizzazione.

La ri-semantizzazione neopagana

Si tratta della versione italiana di un più grande processo che percorre tutto l’Occidente e che può essere inteso come la declinazione, nell’ambito religioso, della cancel culture. Come, nelle sue origini, il cristianesimo aveva assimilato, assorbito e incorporato luoghi, feste, costumi pagani, ri-semantizzandoli in un cosmo linguistico-concettuale-valoriale orientato in senso cristiano, così oggi luoghi, feste, costumi cristiani vengono ri-semantizzati in senso pagano. Si può prendere l’esempio lampante del Natale. Se il Cristianesimo lo aveva fissato nella festa pagana del Sole Invictus, risemantizzandolo con riferimento a Cristo-Sole, il neopaganesimo, a sua volta, ne conserva la data e la festività, ma senza riferimenti cristiani: facendone un’esplosione consumistica (...). Rimane il simulacro, “sbianchettando” il cristianesimo, ma i contenuti sono altri, intrinsecamente pagani. (...) Ritornano – in forme occulte – le divinità pagane: il culto per il proprio corpo e per la propria bellezza e apparenza; il culto della giovinezza perenne; il culto dell’Imperatore (o culto della personalità); il culto della Natura, radicalmente de-antropizzata (e, a maggior ragione, de-cristianizzata). E si censurano e tabuizzano quegli aspetti cristiani che non si possono ripaganizzare: come la meditazione esistenziale sulla morte.

La concezione della Chiesa come lobby

In questo contesto la Chiesa cattolica non è più vista, soprattutto, come una comunità-di-senso (evangelico e cristiano) e neppure come un’agenzia educativa universale di moralità (cristiana): né Madre né Maestra. È vista, essenzialmente, come una delle tante lobby (certo tra le più importanti) con le quali occorre trattare, per scambi e transazioni: accogliere le richieste, cioè accordare favori, per avere in cambio sostegno (in forme diverse, non solo meramente elettorali). Il concetto-chiave è quello di interesse. Come tutte le lobby, le mafie, le consorterie e massonerie, la Chiesa cattolica fa i suoi interessi, essenzialmente materiali. La si può accontentare con il sostegno alle scuole cattoliche, i finanziamenti alle sue opere, la detassazione dei suoi immobili. E, ovviamente, si può velatamente minacciare la sospensione di questi “favori” nel caso occorra ammorbidire posizioni pubbliche sgradite (a livelli vari: data l’organizzazione complessa dell’Istituzione ecclesiale). Subalterno (ma consapevolmente contiguo e omogeneo) a questa prospettiva è stato il cosiddetto “cattolicesimo popolare” (quello promosso dall’ora scomparso Movimento Popolare). Contrapponendosi al cosiddetto “cattolicesimo democratico” (che intendeva le questioni materiali ecclesiastiche all’interno di un paradigma prioritario di Bene comune), il “cattolicesimo popolare” riteneva prioritaria la rivendicazione e la difesa dei cosiddetti “interessi cattolici”. Qualche residuale relitto di questa posizione è ancora sulla scena: lo si distingue dal consueto stile aggressivo, rancoroso, polemico, urlato, integralistico (uno stile da “omo salvatico”, erede del peggior papinismo).

L’idolatria del Vitello d’oro

L’organamento complessivo di tutti i processi precedentemente indicati in un simbolo luminoso e vittorioso è l’idolatria del Vitello d’oro. È, cioè, una cifra ricapitolativa che sottolinea come tutti i processi di antropologia culturale, che abbiamo cercato di individuare e descrivere, configurino, essenzialmente, una forma religiosa, una religione, con la sua dottrina, i suoi sacerdoti, i suoi fedeli, i suoi riti, i suoi catechismi. Si tratta cioè di un vero culto: l’adorazione di Mammona, dell’Oro. Biblicamente il Vitello d’oro fu dato da Aronne al popolo che chiedeva un dio, con una forma sensibile, nelle difficoltà e nell’angosce del deserto, anche a causa dell’assenza di Mosè. Anche oggi, al fondo, e soprattutto per le generazioni più giovani, davanti alle varie forme crescenti di deserto esistenziale, c’è bisogno di una qualche fede. Ecco allora che i moderni Aronne costruiscono il vitello d’oro. Attenzione: questa nuova religione è molto affascinante e seducente, sul piano individuale e comunitario: è un inganno luccicante, perché dà l’euforia di una libertà che però è solo apparente e illusoria, mentre è una vera schiavitù.

In ogni caso, sul piano religioso, non c’è dubbio. La scristianizzazione non porta a un Illuminismo razionalistico e demitizzatore. Porta alla neo-idolatria. Quando, dunque, cerchiamo di analizzare, non superficialmente, la berlusconizzazione antropologico-culturale nei suoi aspetti religiosi, considerando gli ultimi decenni (quasi mezzo secolo), dobbiamo, naturalmente, osservare che, se non ci fosse stato Berlusconi, questa Nuova Religione, che caratterizza tutto l’Occidente, ci sarebbe stata comunque, come vediamo in altri Paesi. Avrebbe forse preso forme di scientismo, di mito della tecnica, di socializzazione asociale. (...) Ma certo l’idolatria del Vitello d’oro, che ha ormai egemonizzato l’Occidente settentrionale, in Italia si è caratterizzata storicamente come berlusconizzazione: un processo storico imponente (processo di processi) che sarà ricordato nella storia per la sua portata epocale, ben più del berlusconismo politico, fenomeno minore e subalterno. La berlusconizzazione religiosa ha rappresentato un radicale cambiamento d’epoca (...). Ha attratto e orientato anche la Chiesa cattolica italiana?

Rispondere a questa formidabile – e pure essenziale – domanda non è semplice, anche perché, richiederebbe una ricostruzione storica ampia, che non è qui possibile. Sul piano empirico della semplice osservazione esterna di ciò che è accaduto, non pare ci siano molti dubbi: il grande cambiamento d’epoca (che in Italia era largamente espresso dalla berlusconizzazione), da una parte, e la totale inadeguatezza delle risposte pastorali della Chiesa italiana, dall’altra, hanno determinato un gigantesco fallimento pastorale dalle conseguenze vaste, profonde e di lungo periodo. Si è innescata una crisi, che appare irrecuperabile, dagli esiti infausti. Il cristianesimo di Chiesa, nell’Occidente settentrionale e anche in Italia, sembra avviato ad un sostanziale e rapido tramonto. Ovviamente, possedendo ancora la Chiesa strutture materiali notevoli, sono possibili processi di fossilizzazione tali da garantire una presenza marmorizzata e senza vita, incastrata nelle società, ma umanamente ridotta a piccola setta, ancora per molti anni. Tuttavia, chiaramente, si tratta di un fenomeno storico diverso da quello che il cristianesimo ha rappresentato fino a tempi recenti. (...) Ed evidente è stata pure l’incapacità di leggere la realtà, interpretare i processi in atto, articolare risposte pastorali adeguate: incapacità che ha, innegabilmente, caratterizzato i vertici dell’episcopato italiano (nella continuità Ruini-BagnascoBassetti, pur in modi diversi e con livelli differenti di macroerrori e di responsabilità), polarizzati anch’essi sul campo magnetico descritto.

Non lo dico come accusa o polemica, ma a livello di onesta constatazione storica, che non vuole edulcorare la realtà e produrre falsi in bilancio. Con ciò, però, si è solo enunciato il problema e non si è ancora detto nulla. Non è infatti facile darsi una spiegazione di questa vicenda di cecità autolesionistica. Quando si osserva, per esempio, che ci sono ormai alcune generazioni incredule, si coglie, con meritoria acutezza (c’è ancora chi non vuole vederlo!), una spia chiara di questa vicenda: ma naturalmente si sbaglierebbe nuovamente se si volessero colpevolizzare tali nuove generazioni, come se la loro incredulità fosse colpa loro e dipendesse essenzialmente da loro. E si ritorna perciò al punto di partenza.

Lasciando, necessariamente, da parte le più ampie analisi storiche, mi chiedo dunque: ma ora a che punto siamo? quali sono le realtà ecclesiali presenti e che cosa lasciano intravedere? Un punto di osservazione significativo è stato rappresentato dalle reazioni alla morte di Berlusconi.

Un primo contesto di reazioni è stato rappresentato dal papa e dal presidente della Cei card. Zuppi ed è stato – per i casi della storia – enfatizzato dal quasi contemporaneo comportamento nei confronti di Prodi e della scomparsa di sua moglie Flavia. È presto detto. Il papa ha affidato a Parolin parole di cordoglio da trasmettere alla primogenita (non alla vedova: quale? C’erano due vedove e una quasi vedova …) di Berlusconi (definito: «un protagonista della vita politica italiana, che ha ricoperto pubbliche responsabilità con tempra energica»), mentre a Prodi ha scritto lui, direttamente e «fraternamente», dandogli del “tu”, un messaggio autografo di compartecipazione al dolore. Anche Zuppi, rispetto alla morte di Berlusconi, ha espresso in forma ufficiale il suo cordoglio e ha affidato all’arcivescovo di Milano parole di vicinanza per i familiari, mentre ha celebrato (certo anche in quanto arcivescovo della diocesi di Bologna) lui stesso il funerale della signora Prodi, pronunciando un’omelia molto calda e affettuosa, oltre che con forti toni evangelici.

Un secondo contesto di reazioni – stimolato dai giornalisti con loro interviste – ha toccato membri storicamente importanti del Sacro Collegio cardinalizio: il card. Camillo Ruini e il decano, card. Giovanni Battista Re. Entrambi sono stati, in forma sintetica, molto elogiativi della figura di Berlusconi. (...) Si tratta di due contesti di reazioni dalla postura diametralmente opposta, pur nella stringatezza delle espressioni. Il papa e Zuppi appaiono avvertiti del contesto di Berlusconizzazione che abbiamo cercato di ricostruire, si collocano necessariamente in una posizione “complanare”, ma con uno stile che non intralci l’obiettivo di linee pastorali alternative ad essa. Ruini e Re paiono invece autocollocarsi in una dimensione che ignora totalmente la Berlusconizzazione della società italiana, quasi fossero fermi al pre-Berlusconi, e sono polarizzati positivamente sul berlusconismo politico,con l’effetto pastorale implicito di essere interni anche agli aspetti antropologico culturali-religiosi, determinati dai processi di berlusconizzazione.

Un terzo ambito di reazioni, apparentemente intermedio ai primi due, in realtà che ambisce a collocarsi su un piano diverso, è quello del sermone funebre di mons. Mario Delpini in occasione dei funerali di Berlusconi, nel Duomo di Milano. Innanzi tutto, è da rimarcare la collocazione né scontata né ovvia di tale funerale, non nella parrocchia di Berlusconi, cioè nella sua comunità ecclesiale (come è stato per la signora Prodi), ma in Duomo. Molto difficilmente, peraltro, la diocesi di Milano poteva negare tale collocazione. Fedele Confalonieri è l’attuale presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo (un organismo del quale l’arcivescovo di Milano nomina due membri e il Governo italiano gli altri cinque): presidenza, peraltro, che data da un momento precedente all’episcopato di Delpini e quindi prescinde dalla sua responsabilità personale. Ma che, evidentemente, è quanto meno un aspetto che egli non può ignorare. Il dato “civile” del fatto che si sia trattato di un funerale di Stato, non determinava automaticamente lo svolgimento in Duomo. I funerali di Stato di Maroni, sempre nella diocesi di Milano, si sono tenuti a Varese. Si è trattato di una decisione “ecclesiastica” (o, se si vuole, “pastorale”).

Certamente non era un compito facile per mons. Delpini, essendo ancor oggi il defunto al centro di passioni politicocivili contrapposte ed essendo il rito sotto l’osservazione di milioni di Italiani. Delpini ha letto un testo non chiarissimo nell’enunciato (così che è stato interpretato in modi diversi e perfino opposti), dall’andamento criptico e, forse volutamente, ambiguo. Non certo un parlare “sì, sì, no, no”. (...) Da una parte si è trattato di un sermone aliturgico e non di un’omelia che, riconoscendo la centralità della Parola di Dio proclamata, fornisce qualche pensiero di commento (le letture bibliche, appena lette, sono state totalmente ignorate, pur essendo molto belle e significative); d’altra parte, tale sermone aveva una preminente caratteristica civile e laica e si rivolgeva al più vasto pubblico (non di fedeli, ma di spettatori) dentro e fuori il Duomo, facendo passare in secondo piano i familiari con il loro umano dolore (non una parola rivolta a loro nell’omelia, per consolarli e per esortarli a sperare nella Resurrezione; anche il saluto dell’arcivescovo, alla fine della Messa, si è indirizzato prima alle Autorità e solo dopo ai familiari). Nel merito dei contenuti, voleva essere un Ecce homo equanime.

(...) L’epilogo è molto chiaro: Berlusconi è un essere umano come tutti, la morte pone tutti sullo stesso piano, e tutti, anche lui, si trovano, con la morte, davanti a Dio. Sic transit gloria mundi. Certo, c’erano numerosi precedenti letterari per questo genere di discorso. Esempi alti: dall’Imitatio Christi al milanese e cattolico Manzoni («Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza»); ed esempi meno alti: la livella di Totò. (...) Ma se l’epilogo è molto chiaro, più nebbiosa e ambivalente è la prima parte che arieggia all’enigmaticità del Qoèlet: anche se lì, come si è visto, nella conclusione c’era il «giudizio» di Dio, non solo l’«incontro» con Dio. La scelta para-Qoèlet voleva forse riferirsi a una dimensione antropologica universale. Ma si trattava pur sempre del funerale cristiano di un battezzato.

La scelta è stata di non nominare mai, nel sermone, la parola «Gesù», la parola «Vangelo», la parola «Croce», la parola «Resurrezione». L’ambiguità della prima parte (punti 1, 2, 3 e primo periodo del punto 4) deriva dal fatto che non si capisce se il predicatore stia parlando dell’essere umano in generale, della condizione umana, o se si stia riferendo all’uomo Silvio Berlusconi. Forse l’articolo indeterminativo del primo punto (un uomo: «Ecco che cosa si può dire di un uomo») indica che ci si riferisce all’essere umano in generale, mentre i determinativi dei successivi due punti (l’uomo: «Ecco che cosa si può dire dell’uomo») indicano che ci si riferisce all’uomo Berlusconi. Sottigliezza eccessiva? Il dubbio rimane.

Il predicatore parla di vita, di amore, di gioia: ma non afferma, né esplicitamente né anche solo implicitamente, che per il cristiano è Gesù la vita, l’amore, la gioia.Senza questo riferimento essenziale, deprivato di Vangelo, il testo slitta (Vivere: e vengono in mente le canzoni di Vasco Rossi e, prima ancora e più ancora, di Carlo Buti). Di che vita si sta parlando? Di che amore? Di quale felicità? È il punto di vista del Pastore che parla o il Pastore vuole entrare nella coscienza riflessa che è stata del defunto? Sembrerebbe che si tratti della seconda opzione. Ma ci si può limitare a un’asettica e fredda descrizione (...)? Trascrivere burocraticamente il punto di vista berlusconiano per concludere che ora se la vedrà con Dio? O assumere – e perciò implicitamente canonizzare verso l’uditorio – il punto di vista personale e pubblico di Berlusconi, per aggiungere una chiusa dovuta, un minimo sindacale di religione? L’ambiguità lascia aperte entrambe le opzioni. Delpini parla a Berlusconi: lo notomizza e lo descrive, laicamente, per poi dirgli: io ho finito, lascio la parola a Dio. Nel contempo, Delpini parla all’uditorio e gli descrive cosa Berlusconi è stato, senza un minimo cenno di distinguo, e dunque con indiretto sigillo antropologico, per concludere: tutti moriamo e ci incontriamo con Dio. Nella sua stringatezza anaffettiva questo testo è un brano da antologia: il documento perfetto per testimoniare emblematicamente una postura ecclesiastica. Si tratta di quella posizione che, prescindendo da quelle già viste (l’alternativa alla berlusconizzazione, di Bergoglio e Zuppi, o in simbiosi al berlusconismo politico e ignara degli effetti della berlusconizzazione, con Ruini e Re), si colloca – di fatto – all’interno della berlusconizzazione come ambito di Religione civile.

La non-omelia di Delpini, il suo sermone aliturgico funebre nel Tempio, è un vero pezzo virtuosistico di Religione civile, di “mondanizzazione” (non in senso bonhoefferiano ma neo-sadduceo): se lo leggiamo in quest’ottica, tutto torna. Questo spiega pure gli entusiasmi che ha suscitato in atei devoti, come Giuliano Ferrara, e negli epigoni del “cattolicesimo popolare” (che vi hanno visto evidenti echi di Giussani sui quali non so valutare). Io credo che questa postura ecclesiastica – interna alla berlusconizzazione – ha perso la guida della Cei, ma è ancora molto pervasivamente diffusa nel corpo molle della Chiesa italiana. Tale postura assume varie sfumature (favorevole al papa ma incapace di immaginare una pastorale conseguente; favorevole al papa ma non comprendendone il magistero; sfavorevole al papa per vari motivi) ma con esiti convergenti: è forte dell’illusione di avere più libertà, mentre si consegna ad una sottile schiavitù mondana. La prova più evidente è data dalla conduzione al ribasso con cui è stato gestito il “doppio” Sinodo (della Chiesa universale e della Chiesa italiana), archiviato velocemente e senza che la maggior parte dei fedeli l’abbia saputo (anche se, formalmente, ancora in corso): parlando, a ogni pie’ sospinto, a proposito e a sproposito, di “sinodalità”, ma continuando a fare quello che si faceva prima, anche con sostanziosi ritorni indietro e clericalismo più o meno dissimulato: lasciateci la libertà di fare quello che vogliamo (e di comandare noi).

C’è un aronnismo che, negli anni aridi, desertici che stiamo vivendo, costruisce – in buona fede e pensando di fare bene – il Vitello d’Oro. Nessuno lo ammetterebbe e anzi molti si sdegnerebbero: ma questo segnala come non ci si renda neppure conto dei processi in corso da tempo, forse per totale autoreferenzialità, per stanchezza, per vecchiaia, per boria di potere.

E, lasciatemelo dire, per maschilismo tossico pastorale. Almeno questa valenza anti-evangelica della donna-oggetto e del sesso-possesso, così tipica della Berlusconizzazione, non dovrebbe suscitare una forte reazione? Non dovrebbe apparire in modo nitido come un’evidente schiavitù dello spirito cristiano? Anche qui, aronnismo patriarcale…

La colpa di Aronne fu occasionata dall’assenza di Mosè. L’aronnismo nella Chiesa italiana non può accampare questa attenuante. Mosè c’è e si è sempre espresso molto limpidamente. Papa Francesco ha parlato chiaro, fin dal momento stesso della sua elezione, fin dal 2013 (Assisi, 4 ottobre): «Tutti siamo Chiesa, e tutti dobbiamo andare per la strada di Gesù, che ha percorso una strada di spogliazione, Lui stesso. È diventato servo, servitore; ha voluto essere umiliato fino alla Croce. E se noi vogliamo essere cristiani, non c’è un’altra strada (...)». (...) Ma infine la figura retorica di Mosè sta stretta a papa Bergoglio. Non si tratta infatti di un suo protagonismo di comando, da Capo assoluto. Si tratta, da parte sua, dell’indicazione della centralità del Vangelo. Può darsi che nell’Occidente settentrionale sia ormai troppo tardi. Può darsi che in Italia non si abbiano sufficienti risorse spirituali (avendo lungamente soffocato ed estinto lo Spirito) per rialzarsi come il Figliol prodigo e ritornare all’abbraccio del Padre, riconoscendo di aver imboccato strade sbagliate di dissolutezza pastorale (e di dissoluzione ecclesiale). Che Berlusconi riposi in pace. Preghiamo per lui, perché sia accolto nell’abbraccio purificatore della misericordia divina. Lasciando, sul piano politico del berlusconismo, che i morti seppelliscano i morti, assumiamoci serenamente – ma con fermezza – le nostre responsabilità, per liberarci evangelicamente nel nostro cuore. Non per essere i salvatori della Chiesa, non per insegnare al magistero cosa deve dire, non per un ennesimo sforzo di parole. Ma per liberarci dall’Egitto che è in noi. Ma per aprirci sempre più al soffio dello Spirito. E per amare la Chiesa reale, portando il nostro contributo affinché non sia estinto lo Spirito.

*Foto presa da Picryl, immagine originale e licenza 

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