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A 30 anni dalla morte, un libro su don Peppino Diana in versione “integrale”

A 30 anni dalla morte, un libro su don Peppino Diana in versione “integrale”

Tratto da: Adista Notizie n° 11 del 23/03/2024

41801 ROMA-ADISTA. Una vita assolutamente normale, quella di don Giuseppe Diana, il prete assassinato dalla camorra il 19 marzo 1994 e di cui ricorrono i trenta anni esatti dalla morte; speciale e unica per l’impegno ecclesiale e civile, certo, ma normale – scrive Sergio Tanzarella nel presentare il suo ultimo lavoro dedicato proprio al prete antimafia e appena uscito in libreria (Don Peppino Diana. Un prete affamato di vita, il Pozzo di Giacobbe, 2024, pp. 216, €18: il libro può essere richiesto anche ad Adista, tel. 06/6868692; email: abbonamenti@ adista.it; o acquistato presso la nostra libreria online, www.adista.it) – per la quotidianità di una esistenza «vissuta in una delle tante, comuni e infinite periferie suburbane del Mezzogiorno. Anonime e inospitali». Ma è proprio nella normalità dell’infanza trascorsa a Casal di Principe e poi degli studi bibilici e teologici in seminario, che don Peppe comprese progressivamente che non sarebbe diventato un prete come tanti altri; che non sarebbe stato «un funzionario del sacro, un asettico distributore di sacramenti e di certificati, un burocrate della religione, un indifferente celebrante di funerali per morti ammazzati». E che non avrebbe tollerato, come tanti intorno a lui, «i soprusi, le intimidazioni e la paura che la camorra imponeva a Casal di Principe e non solo». Una testimonianza religiosa e civile, quella di don Peppino, che anche dopo la morte continua a creare scandalo e imbarazzo. Racconta Tanzarella nel libro un episodio, tra i tanti, davvero significativo: nel settembre del 2013, dopo l’insistenza di un gruppo parrocchiale, anche a Caserta la toponomastica si ricordò di don Peppino Diana e del confratello don Pino Puglisi. A loro «dedicarono due Larghi, anonimi e disabitati. Squallidi e sudici spazi di cemento adibiti a depositi di materiali e a discariche di spazzatura. Ma che sconcerto, quel giorno dell’inaugurazione, notare che per Puglisi il cartello riportava “vittima della mafia”», mentre per don Diana un generico “medaglia d’oro al valor civile”, «riconoscimento alto ma tuttavia a noi sembrò usato apposta per non scrivere “vittima della camorra”. Camorra è parola che nel comune di Caserta si preferiva e si preferisce non pronunziare. Protestammo e ottenemmo un cartello adeguato secondo giustizia: “Vittima della camorra”. Ma durò poco, una notte il cartello sparì. Per sei mesi rimase solo il palo, desolato e anonimo a far la guardia a uno slargo di cemento e spazzatura». Poi una nuova targa fu posta; quella rimase, ma la scritta no: infatti, «la nuova targa non fu più rubata, ma sbiancata con qualche acido idoneo a renderla muta». Nell’indifferenza dell’amministrazione locale, che non fece più nulla, nonostante appelli, pressioni, insistenze, articoli di giornale. «A Caserta capoluogo, quindi – osserva amaro Tanzarella – anche dopo trent’anni è vietato che la toponomastica cittadina ricordi don Diana e ricordi da chi venne ucciso. Anche una semplice targa stradale è avvertita come una sfida, un antidoto alla smemoratezza, tanto che don Peppino è l’unico in tutta Caserta a cui è dedicato un anonimo spazio senza nemmeno una targa stradale nella totale indifferenza di una amministrazione comunale espressione del Partito Democratico. La stessa Amministrazione che con il sindaco Carlo Marino in testa e l’assessore alla Cultura Vincenzo Claudio Battarra ha inaugurato – il 29 maggio 2022 – impettita e soddisfatta una statua di bronzo dedicata al re borbone Ferdinando IV», un re «scellerato e sanguinario», mandante della repressione compiuta da Sanfedisti e Lazzaroni nei confronti degli esponenti della rivoluzione napoletana del 1799.

Antimafia di maniera

Ma al di là della dirompenza e dello scandalo che ancora la figura e l’opera di don Diana suscita a livello ecclesiale e civile, perché un libro su don Peppino, se di lui si è pure scritto in questi venti anni? Perché, sottolinea Tanzarella, «una ricerca storica sulla testimonianza e la morte di don Peppino Diana» «è in parte ancora tutta da farsi. Non sono mancati in questi anni utili e preziosi contributi, pur nella varietà dei risultati e della qualità, che hanno permesso di recuperare testimonianze e materiali o raccolto gli sviluppi della sua azione sacerdotale successivi al suo omicidio, tuttavia manca una ricerca storica sistematica d’insieme. Sembra anzi che alla scelta del silenzio da parte di taluni settori della società locale sia corrisposta o una stampa quotidiana scandalistica fondata sulla menzogna o una presentazione riduttiva che sembra aver privilegiato di Diana esclusivamente gli aspetti dell’impegno sociale sfocandone, pur forse senza volontà ma per ignoranza e disattenzione, la figura di prete senza collegare quindi quell’impegno civile alla missione di evangelizzazione. Così il nome di Peppino Diana è entrato nella ritualità di certa antimafia di maniera di taluni professionisti che, ignorando sia il contesto in cui maturarono le sue scelte sia le motivazioni che quelle scelte sostennero, si limitano a pronunciarne il nome come uno slogan».

Tanzarella carca di raccogliere tutte le fonti disponibili, soprattutto quelle legate al contesto di una estrema problematicità sociale ed ecclesiale come quella del casertano, per comprendere la complessità della figura di don Diana all’interno degli anni ‘80 e dei primi anni ‘90. In questo senso, il volume di Tanzarella, che pure non ha pretesa di completezza, intende tracciare un primo elenco di problemi aperti che possa promuovere una ricerca storica sulla figura e sull’opera di Diana senza curarsi delle menzogne dei calunniatori (smentite ormai da sentenze e da una sopravvivenza positiva della figura e della memoria di Diana) e senza cadere però nella pochezza dell’agiografia spicciola carica di pacchiani errori storici, dannosa forse più delle calunnie».

Una svolta storica

Certo, si potrà eccepire, la camorra è viva, mentre don Peppino è morto. Ma, come scrive nel libro mons. Raffaele Nogaro, già vescovo di Caserta e di cui don Peppino (che lo conobbe nel 1991) divenne discepolo (al sodalizio tra padre Raffaele e don Peppino è dedicato il cap. 7 del libro), proprio i funerali del prete anti camorra rappresentano «una svolta storica della Campania». Moltissima gente si riversò infatti per le strade di Casal di Principe, centinaia di lenzuola bianche vennero appese ai balconi, come mai in quel posto era accaduto. «Le lenzuola bianche commentavano il dolore per la perdita e l’ammirazione per l’eroismo del prete buono, in ogni famiglia di Casal di Principe. Oltre ventimila persone presenziavano alle esequie e proclamavano che la gente sapeva ormai superare la paura e l’omertà e mostrava intatta la sua dignità morale. Si può credere ormai che il costume sociale è sano e lotta contro la malvivenza. Come in Sicilia con don Puglisi anche in Campania, “il sangue dei martiri è seme rigoglioso di cristiani”. E la professione della fede nella libertà dell’uomo si svolge quale corollario naturale della fede in Cristo Salvatore». 

*Foto presa da WikiMafia, immagine originale e licenza 

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