
Non è la fine della guerra
Tratto da: Adista Documenti n° 4 del 01/02/2025
Qui l'introduzione a questo testo.
Non posso crederci: dopo 466 giorni di sofferenze inimmaginabili, di omicidi incessanti e di fame e devastazione calcolate provocate dalla macchina da guerra israeliana, il genocidio a Gaza è finalmente giunto al termine.
Il peso di quei giorni grava ancora sul mio cuore. Ogni secondo è stato segnato dalla sofferenza, dalla paura e dall’impotenza di fronte alle innumerevoli vite perse e alle famiglie distrutte. Intere generazioni sono state segnate dalla violenza incessante e dal silenzio assordante della comunità internazionale. Eppure, nonostante le atrocità commesse, la propaganda israeliana sionista e di estrema destra ha tentato di ribaltare la narrazione, nel tentativo di disumanizzare le vittime e giustificare l’ingiustificabile.
Questo momento è surreale. I cieli, che un tempo ruggivano al suono delle bombe, ora ospitano la possibilità di guarigione. Forse le strade, testimoni di un dolore infinito, un giorno saranno di nuovo piene di risate. Ma, anche se questo capitolo si chiude, le cicatrici rimangono: un duro promemoria riguardo all’incapacità del mondo di agire in tempo e all’urgente bisogno di giustizia e responsabilità. La fine del genocidio non cancella i crimini commessi; al contrario, amplifica il bisogno di giustizia e di punizione dei criminali di guerra.
Spero che questo cessate il fuoco non sia solo una pausa, ma un vero inizio: un percorso verso la guarigione, la ricostruzione e la garanzia che atrocità come queste non si ripetano mai più. Non dobbiamo tornare allo stesso ciclo di dolore e sofferenza. Dal 1948 abbiamo sopportato omicidi incessanti, tutti legati alla mancanza di responsabilità penale di Israele.
Ora che a Gaza è stato concordato un cessate il fuoco, le bombe smetteranno di cadere e il mondo tirerà un sospiro di sollievo. Tuttavia, per quelli di noi che sono sopravvissuti, la guerra non è finita: si è semplicemente trasformata. La distruzione fisica potrebbe essersi fermata, ma le battaglie psicologiche ed emotive continuano. Il trauma della perdita, i ricordi della devastazione e il dolore della sopravvivenza persisteranno ben oltre il momento in cui l’ultima bomba sarà caduta. Per Gaza, la sfida non è più solo di ricostruire le infrastrutture, ma di recuperare un senso di normalità tra le macerie di vite distrutte.
Ciò di cui abbiamo bisogno adesso è che Israele e i suoi criminali di guerra siano assicurati alla giustizia, che ci sia giustizia per le nostre vittime. Senza questo, il cessate il fuoco sarà solo una pausa temporanea, una semplice interruzione in un ciclo di violenza che devasta la Palestina da decenni. Non possiamo permettere che ciò accada. Dobbiamo esigere che i responsabili del genocidio siano ritenuti responsabili e che la comunità internazionale riconosca finalmente l’umanità del popolo palestinese e il suo diritto a vivere in pace.
Purtroppo, dopo questa, ci troviamo di fronte a un’altra guerra: una guerra contro noi stessi. È una battaglia psicologica, una lotta per rimarginare ferite non visibili ma altrettanto profonde. Come possiamo iniziare la ripresa se non ci sono case in cui tornare, scuole per i nostri figli, ospedali che si prendano cura dei malati e università che istruiscano i nostri giovani? Come possiamo ricostruire le nostre vite quando le fondamenta della nostra società sono state distrutte? Ciò di cui abbiamo bisogno ora è tempo per piangere, piangere i nostri cari e cercare coloro che sono scomparsi dal 7 ottobre.
Per comprendere la profondità delle sfide future, ho parlato con i sopravvissuti, gli operatori umanitari e gli psicologi che sono stati sul campo a Gaza. Um Salim Amin, madre di cinque figli, ha condiviso con me le sue paure: «Siamo sollevati che i bombardamenti siano finiti, ma cosa succede adesso? Non abbiamo casa, nessuna fonte di reddito e io... niente figli. Sono stati uccisi il 16 maggio 2024. La pace non significa nulla se non riusciamo a trovare un modo per vivere». Il suo sogno adesso, dopo il cessate il fuoco, è costruire una tomba per i suoi figli.
Il dottor Adek, uno psicologo che lavora con persone sopravvissute a traumi, descrive la prolungata crisi di salute mentale che Gaza deve affrontare. «Stiamo assistendo a un’intera generazione profondamente segnata dal genocidio, dagli omicidi e dalla fame», afferma. «Bambini che sono stati testimoni di orrori inimmaginabili, genitori consumati dal senso di colpa dei sopravvissuti e una popolazione che lotta per trovare speranza in mezzo alla disperazione». Le infrastrutture per la salute mentale a Gaza erano già limitate prima del conflitto, e ora sono praticamente inesistenti.
I bisogni attuali di Gaza, dicono gli esperti, sono molteplici. Gli aiuti umanitari immediati sono fondamentali: cibo, acqua pulita, forniture mediche e alloggi temporanei devono essere la priorità. Inoltre, gli investimenti a lungo termine sono essenziali per ricostruire le infrastrutture, ripristinare le istituzioni educative e fornire servizi di salute mentale. La comunità internazionale deve raddoppiare i propri sforzi, non solo a parole, ma con azioni concrete, per garantire che Gaza disponga delle risorse necessarie per ricostruire in modo sostenibile.
Questa non è né la fine della guerra né un vero cessate il fuoco. È solo una pausa temporanea nella macchina omicida israeliana. La fine degli attuali bombardamenti non significa la fine dell’occupazione, dell’oppressione e della negazione dei nostri diritti umani fondamentali. Non è pace: è solo una breve interruzione. E in questo momento ho bisogno di piangere. Ho bisogno di piangere per mio zio Hisham e sua moglie Hanan, per i loro figli Mohammed e Bassil e per i loro sette nipoti. Devo piangere i 72 membri della mia famiglia che ho perso. Ho bisogno di piangere per il mio popolo, per le oltre 50.000 vite brutalmente portate via. Ogni vita perduta è, di per sé, un mondo intero, e ognuna merita di essere ricordata, onorata e pianta.
Ora, la sfida a Gaza è sopravvivere ai prossimi giorni, dato che il cessate il fuoco dovrebbe entrare in vigore il 19 gennaio. I sentieri che si aprono sono incerti e insidiosi. Come sopravviveremo senza case, senza risorse, senza i beni di prima necessità? La comunità internazionale non deve solo esigere un’azione giudiziaria, ma anche fornire un sostegno tangibile alla ricostruzione e alla riabilitazione di Gaza. Questa è una crisi umanitaria che richiede un’azione immediata e sostenuta.
La resilienza del popolo palestinese è stata messa alla prova più volte. Abbiamo sopportato l’insopportabile, siamo sopravvissuti all’inimmaginabile. Eppure siamo ancora qui. Il nostro spirito rimane indistruttibile, anche quando i nostri cuori portano il peso di un'immensa tristezza. Ma questa resilienza non deve essere confusa con l’accettazione. Non accetteremo un futuro in cui ci viene negata la giustizia, dove i criminali di guerra restino impuniti, dove le vite dei nostri cari siano ridotte a statistiche. Chiediamo giustizia. Chiediamo dignità. Chiediamo la libertà.
La ricostruzione di Gaza non significa solo costruire case e riparare infrastrutture; si tratta di ripristinare la speranza, la dignità e l’umanità. Si tratta di dare ai nostri figli un futuro che non sia definito dalla guerra e dalla sconfitta. Si tratta di garantire che i ricordi delle persone che abbiamo perso siano preservati, che le loro storie siano raccontate e che il loro sacrificio non sia stato vano.
Abood Fathi , 21 anni, giovane studente universitario, esprime i suoi timori: «Sognavo di diventare un ingegnere per ricostruire Gaza, ma ora non so nemmeno se resteranno ancora delle università. Avrò la possibilità di studiare di nuovo?». Le sue parole riflettono le aspirazioni di una generazione appesa a un filo. Possa il mondo, mentre vede Gaza, emergere dalle macerie, guardarla anche con senso di responsabilità.
Possa ricordare il ruolo che ha giocato, sia con l'azione che con l'inazione, nel permettere che questa tragedia avesse luogo. Che si impegni a fare meglio, a stare al fianco degli oppressi, a consegnare gli oppressori alla giustizia. Questa non è solo una questione palestinese; è una questione globale. La lotta per la giustizia a Gaza è una lotta per la giustizia ovunque.
Nei giorni a venire, mentre la polvere si deposita e l’attenzione del mondo inevitabilmente si volge altrove, dobbiamo rimanere vigili. Dobbiamo garantire che il cessate il fuoco non sia solo il preludio a un altro capitolo di violenza. Dobbiamo chiedere la fine dell’occupazione, la fine del blocco e la fine dell’oppressione sistematica del popolo palestinese. Solo allora potremo cominciare a sperare nella vera pace.
Questa non è la fine della nostra lotta. Non è la fine della nostra storia. È solo un capitolo: un capitolo doloroso, devastante, che porteremo sempre con noi. Ma continueremo a scrivere la nostra storia, lottando per i nostri diritti, onorando i nostri martiri e costruendo un futuro degno del loro sacrificio. La Palestina risorgerà, non dalle ceneri della guerra, ma dalla forza e dalla resilienza del suo popolo. E il mondo non dovrà mai dimenticarlo.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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